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Ma questo significava dover spiegare il motivo della sua presenza lì e della sua frequentazione con Ziggy. E quel trafficone in chissà quali pasticci si era infilato. Inoltre era possibile che il tipo con la giacca verde potesse essere la persona che aveva accoltellato quel poveraccio. L’idea che potesse, per un motivo qualunque, decidere di tornare indietro non era una bella prospettiva. Non voleva essere un secondo cadavere adagiato acconto a quello di Ziggy.

No. Meglio fare finta di nulla. Nessuno l’aveva visto, non aveva lasciato tracce dietro di sé e da quelle parti era pieno di gente che si faceva i fatti suoi. Inoltre, ogni abitante del quartiere aveva per natura una certa riluttanza ad aprirsi con i poliziotti.

Mentre rifletteva e decideva che linea seguire, si era accorto che la manica destra della giacca era macchiata di sangue. Aveva svuotato le tasche gettando ogni cosa sul sedile del passeggero. Aveva controllato che non ci fosse nessuno nei paraggi quindi era sceso a buttare l’indumento in un cassonetto dei rifiuti. Con un cenno di autoironia che lo aveva sorpreso, date le circostanze, si era detto che al ritmo di due giacche gettate al giorno, presto avrebbe avuto seri problemi con il guardaroba.

Era salito in macchina ed era tornato a casa. Dal garage, con l’ascensore era salito direttamente al suo piano. Questo avrebbe evitato al portiere la fatica di ricordare che era uscito con la giacca ed era rientrato in maniche di camicia.

Aveva appena appoggiato la sua roba sul tavolo quando era arrivata l’esplosione.

Si alzò dal divano e andò a riaccendere la luce, gli occhi rivolti al bagliore a est e il pensiero che non riusciva a staccarsi da quello che era successo nel pomeriggio. Gli venne da chiedersi una cosa, ora che ragionava a mente fredda. Perché Ziggy aveva impiegato le ultime forze e gli ultimi momenti di vita per stampare quel foglio rimasto in sospeso e per metterlo fra le sue mani insieme alla foto? Cosa c’era sopra di tanto importante da giustificare quel comportamento?

Si avvicinò al tavolo, prese la foto e la fissò per qualche istante, senza sapere chi fosse e senza capire che cosa potesse significare quel viso di ragazzo bruno che reggeva in mano un gatto nero. Il foglio invece era la fotocopia di una lettera scritta a mano, con un tratto senza dubbio maschile. Iniziò a leggere, cercando di decifrare la calligrafia ruvida e imprecisa.

E mentre scorreva le parole e ne capiva il senso, si ripeteva che non poteva essere vero. Dovette rileggerla tre volte per convincersi. Dopo, senza fiato, appoggiò di nuovo la lettera e la foto sul tavolo, con la sola macchia del sangue di Ziggy a confermare che invece era tutto reale, che non si trattava di un sogno.

Ritornò a rivolgere lo sguardo verso l’incendio che continuava ad ardere laggiù in fondo.

Aveva la testa confusa. Mille pensieri gli attraversavano la mente senza che riuscisse a fissarne nemmeno uno. L’annunciatore di NY1, prima, non aveva detto l’indirizzo preciso del posto dove quel palazzo si era disintegrato. Di certo lo avrebbero riferito in un notiziario successivo.

Lo doveva assolutamente sapere.

Tornò sul divano e ridiede voce al televisore per avere ulteriori informazioni dai telegiornali. Senza sapere bene se aspettarsi una smentita o una conferma.

Rimase lì, chiedendosi se il vuoto nel quale si sentiva precipitare fosse la morte. Se suo fratello provava la stessa cosa, ogni volta che si avvicinava a una notizia o stava per scattare una delle sue foto. Nascose il viso fra le mani e nella penombra delle palpebre chiuse si rivolse all’unica persona che avesse davvero contato qualcosa per lui. Come ultimo appiglio, cercò di immaginare quello che avrebbe fatto Robert Wade se si fosse trovato nella sua situazione.

CAPITOLO 13

Padre Michael McKean era seduto su una poltrona davanti a un vecchio televisore, nella sua camera a Joy, la sede della comunità che aveva fondato a Pelham Bay. Era una stanza all’ultimo piano, un abbaino con parte del soffitto a spiovere, i muri bianchi e un pavimento di larghe tavole di abete. Nell’aria c’era ancora un vago sentore dell’impregnante con cui era stato trattato, una settimana prima. I mobili da poco prezzo che componevano l’arredamento spartano erano stati recuperati dove capitava.

Tutti i volumi appoggiati sulla libreria, sulla scrivania e sul tavolino da notte erano arrivati in quella casa seguendo lo stesso percorso. Molti erano regali dei parrocchiani, alcuni fatti espressamente a lui. Tuttavia, padre McKean per sé aveva sempre scelto le cose più usurate e compromesse.

Un poco per il suo carattere ma soprattutto perché, se c’era la possibilità di avere una miglioria nella vita di tutti i giorni, preferiva che fossero i ragazzi a beneficiarne. Le pareti erano spoglie, a parte il crocifisso sopra il letto e la macchia di un unico poster. Riproduceva il dipinto in cui Van Gogh aveva ritratto con i suoi colori inventati e la sua prospettiva da visionario la povertà della sua stanza nella Casa Gialla ad Arles. Pur essendo due ambienti completamente differenti, entrando si aveva l’impressione che quelle due stanze si comprendessero, che in qualche modo comunicassero e che quel quadro sul muro bianco fosse in realtà un’apertura attraverso la quale era possibile avere accesso a un posto lontano e a un tempo diverso.

Oltre i vetri della finestra senza tende, si intravedeva il mare riflettere l’azzurro ventoso del cielo di fine aprile. Quando era bambino, in giornate serene come quella, sua madre gli diceva che il sole dava all’aria un colore come gli occhi degli angeli e che il vento non permetteva loro di piangere.

Una piega amara diede una nuova forma alla sua bocca e una diversa espressione al suo viso. Quelle parole piene di fantasia e colore erano state trasmesse a una mente ancora così pulita da saperle raccogliere e trattenere nella memoria per sempre. Ma il notiziario della CNN in quel momento aveva altre parole e altre immagini per il suo presente, chiamate a comporre per la memoria futura scene che da sempre solo la guerra aveva il triste privilegio di rappresentare.

E la guerra, come tutte le epidemie, prima o poi arrivava dappertutto.

In primo piano c’era il viso di Mark Lassiter, un inviato dal viso consapevole eppure come incredulo per quello che stava vedendo e dicendo, che portava sotto gli occhi e nei capelli e sul colletto della camicia il segno di una notte passata in bianco. Dietro di lui le macerie di un palazzo sventrato dalle quali uscivano ancora delle beffarde volute di fumo grigiastro, figlie morenti delle fiamme che avevano illuminato a lungo l’oscurità e lo sgomento degli uomini. I vigili del fuoco avevano lottato tutta la notte per sedarle e ancora adesso, su un lato, i lunghi getti degli idranti indicavano che l’opera non era del tutto finita.

«Quello che vedete alle mie spalle è il palazzo che ieri sera è stato parzialmente distrutto da una fortissima esplosione. Gli esperti, dopo una prima sommaria indagine, sono ancora all’opera per stabilirne le cause.

Finora nessuna rivendicazione è arrivata a stabilire se si tratti di un attentato di stampo terroristico o di un semplice per quanto tragico incidente. La sola cosa certa è che il bilancio delle vittime e dei dispersi è piuttosto elevato. I soccorritori stanno lavorando senza sosta e senza risparmio di mezzi per estrarre da sotto le macerie i corpi di quanti hanno perso la vita con la speranza mai spenta di trovare eventuali superstiti.

Ecco le impressionanti immagini dalla telecamera montata sul nostro elicottero che mostrano senza bisogno di eccessivi commenti l’entità di questa tragedia che sta sconvolgendo la città e l’intero Paese e che riporta alla mente altre immagini e altre vittime che gli uomini e la storia non smetteranno mai di ricordare.»