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L’uomo sulla sedia contrasse la mascella. La voce gli uscì dalle labbra come frantumata da un’ira tardiva e inutile.

«Se solo avessero bombardato quelle maledette dighe…»

Jeff lasciò in sospeso la frase. Le sue parole evocavano fantasmi che più volte avevano cercato entrambi senza risultato di esorcizzare.

Il caporale Wendell Johnson scosse la testa.

Quello che era stato fatto apparteneva alla storia e quello che non era stato fatto rimaneva un’ipotesi senza possibilità di conferma. Nonostante i massicci bombardamenti a cui il Vietnam del Nord era stato sottoposto, nonostante il fatto che durante le incursioni aeree fosse stato sganciato il triplo delle bombe usate nella Seconda guerra mondiale, nessuno aveva mai dato l’ordine di colpire le dighe sul Fiume Rosso. Molti pensavano che sarebbe stata una mossa risolutiva. L’acqua avrebbe invaso le valli e il mondo avrebbe additato come un crimine di guerra quello che con ogni probabilità sarebbe stato un mezzo genocidio. Ma forse il conflitto avrebbe avuto un esito differente.

Forse.

«Sarebbero morte centinaia di migliaia di persone, Jeff.»

L’uomo sulla sedia a rotelle alzò uno sguardo in cui fluttuava qualcosa di indefinibile. Forse era l’estremo appello a una misericordia sospesa fra il rimpianto e il rimorso per quello che pensava. Poi girò la testa e guardò un punto lontano, oltre la cresta degli alberi.

«Sai, ci sono momenti in cui sono soprappensiero e appoggio le mani sui braccioli per cercare di alzarmi. Poi ricordo lo stato in cui mi trovo e mi maledico.»

Tirò un profondo respiro come se avesse bisogno di molta aria per dire quello che stava per dire.

«Mi maledico perché sono così e soprattutto perché darei la vita di milioni di quelle persone pur di riavere indietro le mie gambe.»

Tornò a fissarlo negli occhi.

«Cosa è successo Wen? E soprattutto perché è successo?

«Non lo so. Credo che nessuno riuscirà mai a saperlo davvero.»

Jeff appoggiò le mani sulle ruote e mosse di poco la sedia avanti e indietro, come se quel gesto servisse a ricordargli di essere ancora vivo. O semplicemente era un momento di distrazione, uno di quelli in cui pensava di potersi alzare e andarsene con le sue gambe. Seguì i pensieri e ci volle un attimo prima che diventassero parole.

«Una volta dicevano che i comunisti mangiavano i bambini.»

Parlava e lo guardava senza vederlo, come se stesse in realtà visualizzando l’immagine che quelle parole evocavano.

«Noi i comunisti li abbiamo combattuti. Forse è per questo che non ci hanno mangiati.»

Fece una pausa e quando parlò di nuovo la voce era un sussurro.

«Solo masticati e sputati.»

Si riscosse e gli tese la mano. Il caporale la strinse trovandola salda e asciutta.

«Buona fortuna, Jeff.»

«Vattene a fare in culo, Wen. E vacci in fretta. Detesto mettermi a piangere davanti a un bianco. Sulla mia pelle sembrano nere pure le lacrime.»

Wendell si allontanò con la netta sensazione che stava perdendo qualcosa. Che entrambi stavano perdendo qualcosa. Oltre a quello che già avevano perso. Aveva fatto pochi passi quando la voce di Jeff lo costrinse a fermarsi.

«Ah, Wen.»

Si girò e lo vide, un’ombra d’uomo e di macchina contro il tramonto.

«Scopatene una anche per me.»

Fece con la mano un gesto inequivocabile.

Come risposta Wendell gli sorrise.

«Va bene. Quando succederà, sarà fatto il tuo nome.»

Il caporale Wendell Johnson si allontanò con lo sguardo fisso davanti a sé, il passo che suo malgrado era ancora quello di un soldato. Raggiunse l’alloggiamento, senza più salutare né parlare con nessuno. Entrò nella sua camera. La porta del bagno era chiusa. La teneva sempre così, perché lo specchio era piazzato di fronte all’ingresso. Preferiva evitare che il suo viso fosse la prima immagine ad accoglierlo.

Si costrinse a pensare che dal giorno dopo avrebbe dovuto farci l’abitudine. Non esistevano specchi benevoli, solo superfici che riflettevano esattamente quello che vedevano. Senza pietà, con il sadismo involontario dell’indifferenza.

Si tolse la camicia e la gettò su una sedia, lontano dalla malia autolesionista dell’altro specchio, quello all’interno dell’armadio a muro. Si levò le scarpe e si stese sul letto con le mani dietro la testa, pelle ruvida contro pelle ruvida, una sensazione alla quale era abituato.

Dalla finestra, oltre i vetri socchiusi, figlio dell’azzurro cupo che preannunciava la sera, giungeva il battere ritmato e nascosto di un picchio fra gli alberi.

tupa-tupa-tupa-tupa… tupa-tupa-tupa-tupa…

La memoria fece i suoi giri viziosi e quel suono divenne il tossire sordo di un AK-47 e subito dopo un groviglio di voci e di immagini.

«Matt, dove cazzo sono questi pezzi di merda? Da dove sparano?»

«Non lo so. Non vedo niente.»

«Tu, con l’M-79, tira una granata fra quei cespugli a destra.»

«Corsini che fine ha fatto?»

E la voce di Farrell, sporca di terra e di paura, che proveniva da un punto indefinito alla loro destra.

«Corsini è andato. Pure Mc…»

tupa-tupa-tupa-tupa…

E anche la voce di Farrell si era sciolta nell’aria.

«Wen, muoviti, portiamo via il culo da qui. Ci stanno facendo a pezzi.»

tupa-tupa-tupa-tupa… tupa-tupa-tupa-tupa…

«No, non di lì. È tutto scoperto.»

«Cristo santo, sono dappertutto.»

Riaprì gli occhi e permise alle cose che lo circondavano di tornare.

L’armadio, la sedia, il tavolo, il letto, le finestre con i vetri stranamente puliti. E anche qui odore di ruggine e disinfettante. Quella stanza era stata il suo unico riferimento per mesi, dopo tutto il tempo passato in una corsia, con medici e infermieri che si affannavano intorno a lui per cercare di alleviargli la sofferenza delle ustioni. Lì aveva permesso alla mente di rientrare quasi intatta nel suo corpo devastato, aveva recuperato la lucidità e fatto a se stesso una promessa.

Il picchio concesse una tregua all’albero che stava torturando. Gli sembrò un buon augurio, la fine delle ostilità, una parte del passato che poteva lasciare in qualche modo alle spalle.

Che doveva lasciare alle spalle.

Il giorno dopo sarebbe uscito.

Non sapeva che mondo avrebbe trovato oltre le mura dell’ospedale, né sapeva come quel mondo lo avrebbe accolto. In realtà nessuna delle due cose gli importava. Solo il lungo viaggio che aveva davanti gli interessava, perché alla fine di quel viaggio lo attendeva l’incontro con due uomini. Lo avrebbero guardato con occhi pieni di paura e di stupore, quelli che si provano davanti all’incredibile. Poi lui avrebbe parlato, a quella paura e a quello stupore.

Infine li avrebbe uccisi.

Un sorriso, di nuovo privo di dolore. Senza accorgersene scivolò nel sonno. Quella notte dormì senza sentire voci e per la prima volta non sognò gli alberi della gomma.

CAPITOLO 2

Durante il viaggio lo sorprese il grano.

Da un certo punto in poi, mentre risaliva verso nord e si avvicinava a casa, a tratti sfilava morbido ai lati della strada, docile sotto l’ombra del pullman della Greyhound che tirava dritto, spinto da benzina e indifferenza. Le striature del vento e l’ombra delle nuvole lo rendevano vivo e nel ricordo restio sotto la mano. Compagno di viaggio inatteso, caldo colore della birra fresca, ospitalità da fienile.

Conosceva quella sensazione. Un tempo aveva mangiato quel pane.