Qualche tempo prima, Giovanni Paolo II aveva chiesto scusa al mondo per il comportamento della Chiesa cattolica di circa quattrocento anni prima, all’epoca dell’Inquisizione. Fra quattrocento anni, di che cosa il Papa di allora avrebbe chiesto scusa per quello che stavano facendo adesso? Di cosa avrebbero chiesto scusa tutti gli uomini che nel mondo professavano una fede?
La fede era un dono, come l’amore e l’amicizia e la fiducia. Non poteva nascere dalla ragione. La ragione poteva solo, in certi casi, aiutare a tenerla viva. Era l’altro binario, quello che correva parallelo in una direzione che non era dato sapere. Ma se la fede faceva perdere la ragione, si perdevano con lei l’amore, l’amicizia, la fiducia, la bontà.
E dunque la speranza.
Aveva intorno a sé, da che Joy era nata, ragazzi in cui quello era stato un sentimento sconosciuto fin dall’inizio o perduto nel corso del loro breve e infelice viaggio. Quello che avevano avuto, in cambio della speranza, era stata una terribile sicurezza. Che la vita fosse fatta di vicoli, di espedienti, di penombra, di desideri mai realizzati, di botte, di affetto negato, di cose belle riservate ad altri. Che andando contro la vita e contro se stessi nulla avevano da perdere, perché nel nulla vivevano.
E così in quel nulla molti si perdevano.
Bussarono alla porta. Il sacerdote lasciò la finestra e andò ad aprire. Nel riquadro si trovò davanti la figura di John Kortighan, il responsabile laico di Joy. La positività fatta persona. E Dio sapeva di quanta positività ci fosse bisogno ogni giorno in un posto come quello.
John si occupava di tutti gli aspetti pratici di una struttura che era, sotto un profilo tecnico, abbastanza semplice da gestire ma nello stesso tempo, per diversi motivi, parecchio complessa. Era organizzatore, amministratore, procuratore e un sacco di altre cose che finivano per «ore», non ultima quella di essere un vero signore. Quando aveva accettato di occuparsi di Joy in cambio di uno stipendio non molto elevato e non sempre puntuale, il reverendo McKean si era trovato dapprima incredulo e in seguito euforico, come davanti a un bel regalo inatteso. Non si era sbagliato nel valutarlo e non aveva mai avuto ragione di pentirsi della sua scelta.
«I ragazzi sono pronti, Michael.»
«Molto bene. Andiamo.»
Prese la giacca dall’attaccapanni, uscì dalla stanza e accostò la porta.
Non si curò di chiudere a chiave. A Joy non esistevano chiavistelli o serrature. Quello che aveva da sempre cercato di trasmettere ai suoi ragazzi era che non si trovavano in un carcere ma in un luogo dove la libera scelta governava le azioni e i movimenti di tutti. Ognuno di loro era autonomo e in qualunque momento poteva lasciare la comunità, se lo avesse ritenuto opportuno. Molti di loro erano approdati a Joy proprio perché nel posto in cui vivevano prima si erano sentiti imprigionati.
Padre McKean ne era conscio e sapeva che la battaglia contro la droga era lunga e difficile. Sapeva che ognuno dei suoi ragazzi lottava contro una necessità fisica che poteva trasformarsi in un autentico malessere. Nello stesso tempo ognuno doveva confrontarsi con tutto quello che, dentro e intorno a lui, lo aveva spinto nella peggiore delle oscurità, quella in cui ci si può trovare anche quando non è buio. Con la certezza che il supplizio fisico poteva cessare e tutto il resto poteva essere nascosto o scordato col semplice gesto di prendere una pastiglia, aspirare della polvere bianca, infilarsi un ago nelle vene.
A volte, purtroppo, qualcuno non ce la faceva. Qualche mattino si svegliavano e si trovavano di fronte a un letto vuoto e a una sconfitta che era difficile assorbire e metabolizzare. In quel momento erano gli altri ragazzi che si stringevano intorno a lui. Quella dimostrazione di affetto e di fiducia dava senso a tutte le cose e la forza per continuare, con molta amarezza e un poco di esperienza in più.
Mentre scendevano le scale, John non riuscì a evitare un commento a quello che era successo la sera prima a Manhattan. Probabilmente non si stava parlando d’altro, nel mondo.
«Hai visto i notiziari?»
«Non tutti ma parecchi.»
«Io stamattina ho avuto da fare. Ci sono stati sviluppi?»
«No. O almeno non sviluppi a conoscenza della stampa.»
«Secondo te chi è stato? Terroristi islamici?»
«Non saprei. Non sono riuscito a farmi un’idea precisa. Probabilmente nessuno è riuscito a farsela. L’altra volta la rivendicazione è stata immediata.»
Non era il caso di specificare. Tutti e due sapevano quale potesse essere definita l’altra volta.
«Ho un cugino in Polizia, proprio in un Distretto nel Lower East Side.
L’ho sentito stamattina. Era sul posto. Non ha potuto sbilanciarsi ma ha detto che è una gran brutta faccenda.»
John si fermò un istante sull’ultimo pianerottolo, come se quello che stava per dire necessitasse di una precisazione.
«Voglio dire, molto più brutta di quanto sembra.»
Ripresero a scendere e arrivarono al fondo delle scale in silenzio. Tutti e due chiedendosi che cosa al mondo avesse il potere di trasformare un fatto di sangue come quello in qualcosa di ancora peggiore. Attraversarono la cucina attrezzata per i bisogni di una comunità di una trentina di persone, dove tre ragazzi di turno e la signora Carraro, la cuoca, stavano lavorando per preparare il pasto della domenica.
Era un locale piuttosto ampio, che dava sul retro della casa, illuminato da grandi finestre, con i fuochi al centro sotto la cappa di aspirazione e i banconi e i frigoriferi ai lati.
Padre McKean si avvicinò a un fornello, affiancandosi alla donna che gli dava le spalle e che non l’aveva visto arrivare. Sollevò il coperchio e lasciò che una voluta di vapore profumato di sugo salisse a perdersi nella cappa.
«Buongiorno signora Carrara, con che cosa ci avvelenate oggi?»
Janet Carraro, una donna di mezza età dalle forme abbondanti e, per sua stessa definizione, a due libbre dall’essere grassa, ebbe un sobbalzo. Si pulì le mani sul grembiule, tolse il coperchio dalle mani del sacerdote e lo riappoggiò sulla pentola.
«Padre McKean, per sua norma e regola questo è un sugo che può considerarsi un peccato di gola.»
«Dunque oltre che per i nostri corpi dobbiamo temere per le nostre anime?»
I ragazzi che stavano pulendo e affettando delle verdure su un tagliere di legno dall’altra parte della stanza sorrisero. Quel tipo di schermaglie era abituale fra i due, una piccola rappresentazione frutto del reciproco affetto a uso e consumo del divertimento comune. La cuoca prese un cucchiaio di legno, lo intinse nel sugo e lo porse con aria di sfida al sacerdote.
«Tenga e constati di persona, uomo di poca fede. E si ricordi san Tommaso.»
McKean avvicinò il cucchiaio alle labbra soffiando per raffreddarlo e poi lo infilò in bocca. L’aria dubbiosa dei primi istanti venne sostituita da un’espressione estatica. Riconobbe subito il sapore robusto del sugo all’amatriciana della signora Carrara.
«Le chiedo scusa, signora Carrara. Questo è il miglior ragù che abbia mai assaggiato.»
«È un sugo all’amatriciana.»
«Allora sarà il caso di riferirglielo, altrimenti continuerà a sapere di ragù.»
La cuoca finse di indignarsi.
«Se lei non fosse la persona che è, per questa affermazione metterei una dose gigantesca di peperoncino nel suo piatto, quando sarà il momento. E non è ancora del tutto escluso che non lo faccia.»
Ma il tono della sua voce e il viso sorridente smentivano le sue parole.
Gli fece un gesto con il cucchiaio verso la porta.
«E adesso se ne vada e lasci lavorare le persone, se vuole mangiare quando torna. Ragù o amatriciana che sia.»
Il sacerdote trovò John Kortighan in piedi accanto alla porta che dava sul cortile, con un sorriso sulle labbra per il piccolo spettacolo a cui aveva appena assistito. Mentre gli teneva la porta aperta espresse il suo giudizio critico.