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Mentre la pressione della vescica contribuiva a far venire a Peter la tipica erezione post-risveglio, gli era capitato di pensare anche un’altra cosa. A lui capitava spesso di svegliarsi in stato di eccitazione verso le 2 o le 3 del mattino, e in quei casi si chiedeva subito se sua moglie fosse per caso sveglia a sua volta. Se la trovava sveglia solitamente la persuadeva a fare all’amore, comunque Peter non si sarebbe mai sognato di svegliarla apposta per quel motivo. Ma se il monitor avesse dato luce bianca per entrambi, be’, allora quello che era cominciato come il Baby Monitor Hobson sarebbe stato responsabile della nascita di molti nuovi bambini…

Negli anni seguenti Peter aveva prodotto modelli sempre più costosi e perfezionati anche di quell’apparecchiatura. Tutti i telefoni di casa Hobson erano adesso collegati a un Monitor Hobson, e da lì al computer centrale della casa. Quando qualcuno telefonava fuori orario, che la chiamata passasse o no oltre lo sbarramento della segreteria telefonica dipendeva dalle luci colorate sui display nella camera da letto di Peter e Cathy.

Fu così che quel mattino di settembre una telefonata trovò sul giallo la luce di Peter ed ebbe il permesso di far scattare la suoneria, benché fossero appena le 03:17. Peter si alzò dal letto e andò nel bagno di sua moglie, dove c’era un telefono col solo audio. Mentre lasciava la camera, il suo indicatore passò sul bianco-lampeggiante. Chiuse la porta, sedette sulla tazza del cesso e sollevò il ricevitore.

— Sì, pronto? — disse, con voce ancora impastata.

— Il Dr. Hobson? — chiese l’interlocutore.

— Sì. Chi parla?

— Io sono Sepp van der Linde, del Carlson Chronic Care. Sono il capo-infermiere del turno di notte.

— Ah. Mi dica. — Peter si girò a prendere un bicchiere sul lavandino e lo riempì sotto il rubinetto. — È successo qualcosa?

— Credo che Mrs. Fennell non supererà la notte. Ha avuto un altro collasso cardiaco.

Peter sentì un brivido di tristezza. — La ringrazio per avermi chiamato. La mia attrezzatura è sempre al suo posto?

— Sì, signore, è a posto, ma…

Lui represse uno sbadiglio. — Allora mi farò vivo in mattinata per ritirare la registrazione su disco.

— Ma Dr. Hobson, la signora Fennell ha chiesto di lei.

— Di me?

— Dice che lei è il suo solo amico.

— Vengo immediatamente.

Peter arrivò alla Carlson Chronic Care poco prima delle quattro del mattino. Mostrò i suoi documenti alla guardia in astanteria e prese l’ascensore fino al terzo piano. La porta della stanza della signora Fennell era aperta, e la luce principale spenta, ma la piccola lampada sopra la testata del letto era accesa. I quattro display verdi che rilucevano nella penombra sulla destra della degente indicavano che l’attrezzatura montata da lui era in funzione. Dalla parte opposta era seduta un’infermiera, con un’espressione un po’ annoiata sulla faccia.

— Sono Peter Hobson — le disse. — Come sta Mrs. Fennel?

L’anziana donna distesa sul letto lo sentì e mosse una mano. — Pe… ter — disse, ma lo sforzo di pronunciare quelle due sillabe parve indebolirla ancor di più.

L’infermiera si alzò e venne accanto a Peter. — Ha avuto un collasso poco prima delle tre, e il Dr. Chong pensa che potrebbe averne un altro fra poco. Ha parecchi coaguli nelle arterie che alimentano il cervello. Le abbiamo chiesto se vuole qualcosa contro il dolore, ma lei ha detto di no.

Peter controllò il registratore della sua apparecchiatura e accese lo schermo, che subito prese vita. Le otto linee verdi del grafico scorrevano con moto uniforme da destra a sinistra, rivelando l’attività debole ma normale di un cervello in stato di veglia. — Va bene, grazie, infermiera — disse. — Starò io con lei. Adesso può andare, se ha altro da fare.

L’infermiera annuì e lasciò la stanza. Peter spostò la sedia più vicino al letto e si mise a sedere. Poi prese la mano sinistra della signora Fennell fra le sue, cautamente. C’era un ago inserito su di essa, con un tubicino collegato a una busta trasparente che pendeva dall’asta. Era una mano sottile, deformata dall’artrosi, coperta di pelle secca come pergamena antica. Peter gliela accarezzò piano, per farle sentire che era lì. Lei strinse debolmente le sue dita.

— Sono qui, Mrs. Fennell — disse Peter. — Sono qui con lei.

— Pe…Pe…

Lui sorrise. — Sì, sì, Mrs. Fennell, sono Peter. Sono io. La degente scosse impercettibilmente il capo. — P… Pe… — disse ancora, e poi, con grande sforzo: — Peg…

— Oh, sì, è vero — s’affrettò a correggersi Peter. — Sono qui con lei, Peggy.

L’anziana donna sorrise, come se la paresi che le irrigidiva il volto rugoso si fosse finalmente sciolta. Subito dopo, senza un fremito di preavviso, la sua mano divenne inerte fra quelle di Peter e lui s’accorse che nei suoi occhi socchiusi la luce della vita s’era spenta. Sul monitor, le linee verdi del grafico continuavano a scorrere ma erano diventate completamente piatte. Dopo qualche momento Peter lasciò la mano di Mrs. Fennell, deglutì un groppo di saliva e andò ad avvertire l’infermiera.

Capitolo decimo

Peter prese con sé il registratore del superEEG prima di lasciare il reparto degenza dei malati terminali. Quando arrivò a casa non erano ancora le sei, ma trovò Cathy già alzata che mangiava un toast e sorseggiava the caldo in cucina, in attesa di prepararsi per andare al lavoro. Sapeva già dov’era stato, perché Peter le aveva lasciato un messaggio sul computer domestico.

— Com’è andata? — domandò Cathy.

— Ho la registrazione — rispose lui.

— Non sembri molto eccitato.

— Suppongo di no. Mrs. Fennell era una brava donna, e stanotte è morta davanti a me.

Cathy parve capire i suoi sentimenti. Annuì. — Mangi qualcosa?

— No, sono sfinito — disse Peter. — Credo che tornerò a letto. — Le diede un rapido bacio su una tempia e andò in camera.

Quattro ore più tardi Peter si svegliò con un gran mal di capo. Barcollò nel bagno, buttò giù un’aspirina, poi si fece la barba e si vestì. In cucina riempì un grosso bicchiere di Diet Coke, quindi prese il disco registrato quella notte e andò nel suo studio.

Il computer domestico che aveva installato era molto più potente del sistema di cui condivideva l’accesso coi compagni quand’era all’università. Lo accese, infilò il dischetto in un drive e attivò il grande schermo ad alta definizione fissato a una parete della stanza. Quello che voleva vedere era il momento in cui l’ultimo neurone aveva emesso il suo ultimo palpito d’energia, il momento in cui l’ultima sinapsi era stata eccitata. Il momento preciso della morte.

D programma che chiamò a schermo per visualizzare ed elaborare quei dati era un sistema grafico che usava fin dai primi tempi della produzione del Baby Monitor, ormai molto perfezionato e ampliato. Per alcuni minuti dopo che il computer ebbe assorbito i dati del dischetto lui lasciò che il programma lavorasse sulle posizioni di ogni neurone che aveva emesso segnali.

L’immagine che aveva a schermo era quella di un cranio umano trasparente come il vetro, contenente la massa encefalica e i nervi che ne dipartivano. Ora il computer stava aggiungendo particolari inediti a quella forma anonima, trasformandola almeno per quanto riguardava il contenuto di attività elettrica nella testa di Mrs. Fennell. Peter usò una penna ottica come telecomando per selezionare ordini a schermo; fece ruotare l’immagine tridimensionale di profilo e poi in proiezione antero-posteriore, come se da quelle orbite cave i nervi ottici di Mrs. Fennell stessero guardando dritto verso di lui.