Sulla scrivania a cui Peter sedette c’era un telefono soloaudio, vecchio modello. Sulle pagine gialle trovò il numero della Air Canada ed era sul punto di comporlo, per vedere se potevano cambiargli la prenotazione per un altro volo, quando cambiò idea e riaprì l’elenco. Ma dopo aver cercato inutilmente sotto la lettera K decise di chiamare il 411.
Una voce disse, in inglese: — Servizio assistenza telefonica, ricerca utenti. Quale città desidera, per favore? — La stessa frase fu subito ripetuta in francese.
— Ottawa — disse Peter. Sul videotelefono avrebbe potuto avere quelle informazioni a schermo battendo alcuni tasti, ma i cellulari forniti di video erano ancora molto rari, perciò l’assistenza audio era stata mantenuta. La metà delle volte uno capitava su un operatore elettronico, ma quel giorno, dalla noia di cui erano impastate quelle parole, lui capì che aveva il privilegio di usare un operatore in carne e ossa.
— Quale utente, prego? — disse l’uomo, individuando la preferenza linguistica di Peter dall’accento con cui aveva pronunciato la parola «Ottawa.»
— Avete il numero di Rebecca Keaton? — domandò lui. E ripetè: — Kappa, e, a, ti, o, enne.
— Sotto questo nome non c’è nessun utente, signore.
Lui non disse che quell’informazione l’aveva già avuta dall’elenco, ma che sperava d’essersi sbagliato. — Grazie. Senta un momento… — Benché ora vivesse da sola, anni prima era stata sposata per un breve periodo. Come si chiamava quel tipo? Hunnicut? No. — Per favore, provi… uh, Cunning, o Cunningham — disse Peter. — Rebecca Cunningham. Ci, u, doppia enne, i…
— Ho qui una Rebecca L. Cunningham, in Slater Street. Rebecca Louise. — Sì, dovrebbe essere lei.
L’annoiata voce umana fu sostituita da quella vivace di un computer, che gli lesse il numero e aggiunse: — Se lei è un non-vedente, o se desidera la linea subito, prema il tasto con l’asterisco in rilievo.
Peter premette l’asterisco. Sentì alcune note musicali, poi il suono di un apparecchio. Una volta, due volte, tre volte, quattro. Oh, be’, forse a quell’ora…
— Pronto?
— Becky?
— Sì. Chi è?
— Sono Peter Hobson. Scusa se ti ho…
— Petey! Che bello sentirti, dopo tanto tempo. Sei in città?
— Sì. Stamattina avevo una riunione al Ministero della Sanità. È finita abbastanza presto, e il mio volo parte soltanto alle sette di questa sera. Non sapevo neppure se tu abitassi ancora qui, comunque ho pensato di chiamarti.
— Hai fatto bene. Anzi, guarda, io lavoro dal lunedì al giovedì. Oggi sono libera.
— Ah.
— Il famoso Peter Hobson! — ridacchiò lei. — Ho visto una tua foto sul National, neppure un paio di settimane fa. Anche Peter rise. — Sono sempre lo stesso di prima — disse. Una pausa. — Mi fa piacere sentire la tua voce, Becky.
— Già. Anche a me.
Peter sentì il bisogno di schiarirsi la gola. — Che ne diresti… se non hai impegni, ti andrebbe di pranzare con me?
— Sarebbe delizioso, Petey. Questa mattina devo andare in banca, anzi stavo uscendo giusto adesso, ma possiamo vederci, sicuro. Alle undici e mezzo è troppo presto?
Per niente. — Grande. Dove possiamo trovarci?
— Tu conosci il Carlo’s Restaurant, in Sparks Street Mall?
— Posso trovarlo.
— Allora ci vediamo lì alle undici e mezzo, d’accordo?
— Meraviglioso — disse Peter. — Non vedo l’ora.
La voce di Becky era piena di calore. — Anch’io. Ciao, Petey!
— Ciao.
Peter uscì dall’ufficio e passando dall’atrio domandò alla receptionist se sapeva dove fosse Carlo’s. — Oh, sicuro — disse lei con un sorrisetto malizioso, come se gli avesse intercettato la telefonata. — È il posto migliore della città, per una cenetta intima.
— Io vado lì a pranzo — precisò Peter, quasi per giustificarsi.
— Ah, be’, a quell’ora è molto più tranquillo. Fanno degli ottimi tortellini alla bolognese.
— Può dirmi come faccio ad arrivare là?
— Sicuro. È in macchina?
— Andrò a piedi, se non è troppo lontano.
— Le ci vorrà mezz’ora.
— Non c’è problema — disse Peter.
— Le disegno io la mappa — si offrì la receptionist, e gliela tracciò sul retro di un opuscolo. Peter la ringraziò, raggiunse il pianterreno in ascensore e uscì in strada. Il suo orologio faceva le 10:40. Quel mattino era in vena di camminare a passo svelto; per arrivare a destinazione gli bastarono venti minuti, e qui si trovò a essere in anticipo di mezz’ora. Per ingannare il tempo attraversò la strada fino a un distributore di giornali, mise una moneta nella fessura e attese una ventina di secondi che la macchina stampasse una copia dell’Ottawa Citizen. Poi tornò senza fretta al Carlo’s Restaurant ed entrò. Il locale era deserto.
Chiese un tavolo per due, si mise a sedere e ordinò un caffè espresso. Nel guardarsi attorno cercò d’immaginare l’atmosfera intima che poteva avere la sera, con i tavoli occupati da coppie di giovani burocrati, attivisti di qualche partito politico, deputati che avevano lasciato la moglie nel loro distretto e facevano gli straordinari con la segretaria… e magari anche professionisti di passaggio in città, che si ritrovavano segretamente con una vecchia amica. C’era comunque una faccia nota su una parete del bar, in fondo: la stessa bionda della birra Molson’s che rallegrava il muro di fronte ai telefoni, al The Bent Bishop. Peter aprì il giornale e cominciò a leggere, cercando di dominare il suo nervosismo.
La dottoressa Heater Miller si occupava di medicina generica e aveva un ufficio e un ambulatorio al pianterreno di casa sua. Era una donna sui quarantacinque anni, bassa e robusta, con un casco di lucidi capelli color noce. La sua scrivania era una spessa lastra di vetro sostenuta da tre colonnette di marmo nero. Quando Sandra Philo entrò e si presentò, fra un paziente e l’altro, la dottoressa le accennò di accomodarsi nella poltrona di cuoio di fronte alla scrivania. — Come le ho detto per telefono, ispettore, ciò che posso rivelarle su uno dei miei pazienti è molto poco. La legge mi obbliga a rispettare il segreto professionale.
Sandra annuì. La musica era sempre la stessa, e ogni professionista la suonava con estrema cura quando si trattava della polizia. — Capisco benissimo, dottoressa. Il paziente di cui vorrei parlarle, tuttavia, è Roderick Churchill.
La Dr. Miller attese.
— Non so se lei lo abbia saputo — spiegò Sandra, — ma Mr. Churchill è morto la settimana scorsa.
La dottoressa sbatté le palpebre.
— Ah. Non lo sapevo, no.
— Mi spiace averle portato io la brutta notizia, allora — disse Sandra. — La moglie lo ha trovato morto rientrando in casa. Il medico legale dice che probabilmente si è trattato di un aneurisma. Io sono andata a parlare con sua moglie e ho saputo che lei gli aveva ordinato delle pillole di Nardil, le quali, come c’è scritto sull’etichetta, hanno delle forti controindicazioni dietetiche. Però, la sera in cui è morto, Churchill aveva ordinato la cena fuori.
— Dannazione. Ma che gli è preso? — La Dr. Miller allargò le braccia. — Glielo avevo detto di andarci cauto con quello che mangiava, per via della Phenelzina.
— Phenelzina?
— Il Nardil è uno dei nomi sotto cui viene messa in commercio la Phenelzina, ispettore. È un antidepressivo.
Sandra inarcò le sopracciglia. Bunny Churchill era convinta che entrambe le medicine di suo marito fossero per il cuore.
— Un antidepressivo?