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Nella mia vita, naturalmente, c’erano diverse altre questioni in sospeso… relazioni di ogni genere che avrei dovuto concludere o accomodare. Alcune non le avrei mai risolte, lo sapevo.

Per esempio, c’era Nicole, la ragazza alla quale avevo tirato il bidone la sera del nostro ballo studentesco. Non ero mai riuscito a dirle il motivo… mio padre si era ubriacato e aveva buttato mia madre giù dalle scale e io avevo trascorso con lei quella notte, al pronto soccorso di Scarborough. Come avrei potuto dire una cosa del genere a Nicole? Col senno di poi, certo, avrei potuto dirle che mia madre era caduta dalle scale e che avevo dovuto portarla in ospedale, ma Nicole era la mia ragazza, forse avrebbe voluto fare visita a mia madre, e allora le avevo mentito, avevo trovato la scusa di un guasto alla macchina, e poi ero rimasto impigliato in quella bugia, non ero mai riuscito a spiegarle che cos’era accaduto realmente.

Poi c’era Bjorn Amundsen, che all’università mi aveva chiesto in prestito cento dollari e non me li aveva mai restituiti. Sapevo che era povero; sapevo che non riceveva aiuti dai genitori, al contrario di me; sapevo che non aveva ottenuto una borsa di studio. Aveva bisogno più di me di quei cento dollari, anzi, avrebbe continuato ad averne sempre bisogno e non sarebbe mai riuscito a restituirli. Una volta, stupidamente, avevo fatto un commento sui rischi che con lui si correvano. E lui aveva preso a evitarmi, piuttosto che ammettere di non poter pagare il debito. Ho sempre pensato che l’amicizia non ha prezzo, ma in quel caso l’aveva: cento miserabili dollari. Mi sarebbe piaciuto chiedere scusa a Bjorn, ma non sapevo che fine avesse fatto.

E c’era Paul Kurusu, uno studente giapponese al quale una volta, al liceo, in un accesso d’ira, avevo rivolto un insulto razzista. Mi aveva guardato, ferito: aveva ricevuto altre volte simili insulti, ma non da chi considerava un amico. Avevo sempre voluto dirgli quanto fossi dispiaciuto, ma come si fa a parlarne trent’anni dopo?

Con Gordon Small però dovevo fare pace. Non potevo… non potevo scendere nella fossa senza risolvere quella faccenda. Gordon si era trasferito a Boston nei primi anni Ottanta. Chiamai il servizio abbonati. C’erano tre Gordon Small nell’elenco, ma solo uno aveva il secondo nome che iniziava per P… Philip, appunto, ricordai.

Mi segnai il numero, chiesi la linea esterna, composi il mio codice per le interurbane e poi il numero di Gordon. Una giovane voce femminile rispose: — Pronto?

— Potrei parlare con Gordon Small per favore?

— Un momento — disse la voce. Poi chiamò: — Nonno!

Nonno, pensai. Gordon era già nonno, a 54 anni. E lo chiamavo dopo tutto quel tempo. Stavo per mettere giù la cornetta, quando mi giunse un: “Pronto?”.

Due sillabe in tutto, ma riconobbi subito la voce. E fui sommerso da un diluvio di ricordi.

— Gord — dissi — sono Tom Jericho.

Seguì un istante di silenzio, per la sorpresa; poi un gelido: — Ah!

Almeno Gordon non aveva sbattuto giù la cornetta. Forse pensava che fosse morto qualcuno… un amico comune, una persona che avesse per tutt’e due tanta importanza da indurmi a lasciar perdere i nostri dissapori per informarlo sul funerale, uno del nostro vecchio gruppo, del nostro vecchio quartiere.

Gordon però non disse altro, solo “Ah!”. E attese che parlassi.

Ora lui si trovava negli Stati Uniti e io conoscevo bene i media americani: comparso un alieno negli Stati Uniti (il Forhilnor che si aggirava per il palazzo di giustizia a San Francisco o l’altro che visitava l’ospedale psichiatrico di Charleston) non si sarebbe parlato di quelli fuori degli usa; se Gordon sapeva di Hollus e di me, non lo lasciò capire.

Mi ero preparato le parole, ma il suo tono, la sua freddezza, la sua ostilità, mi bloccarono la lingua. Alla fine dissi d’un fiato: — Sono spiacente.

Poteva interpretarlo in molti modi: spiacente per il disturbo, spiacente per avere interrotto ciò che faceva in quel momento, spiacente per la morte di un vecchio amico… oppure per ciò che volevo significare io: spiacente per l’accaduto, per il cuneo che avevamo inserito fra noi in tutti quegli anni. Ma Gordon non mi facilitò il compito. — Per che cosa? — disse.

Sospirai, forse rumorosamente. — Gordon, eravamo amici.

— Finché non mi hai tradito, sì.

Ecco come sarebbe andata, allora. Niente reciprocità, niente sensazione che ciascuno avesse fatto torto all’altro. Tutta colpa mia, solo mia.

Mi sentii ribollire; per un momento avrei voluto inveire, dirgli come mi ero sentito per ciò che lui aveva fatto, dirgli quanto avevo pianto, pianto davvero, di rabbia e di frustrazione e di sofferenza, dopo che la nostra amicizia si era disintegrata.

Chiusi gli occhi un istante per calmarmi. Avevo telefonato per chiudere quella storia, non per riattizzare una vecchia lite. Sentii una fitta al petto, come sempre quando ero sotto tensione. — Sono spiacente — ripetei. — Ho patito, Gordon. Anno dopo anno. Non avrei mai dovuto fare ciò che ho fatto allora.

— Su questo non ci piove, maledizione.

Non potevo però prendermi tutta la colpa, avevo ancora un certo orgoglio. — Mi auguravo che fosse possibile scusarci l’uno con l’altro.

Gordon scantonò subito. — Perché telefoni? Dopo tutti questi anni?

Non volevo dirgli la verità: “Be’, Gord, il fatto è che fra breve sarò morto…” No. Non potevo dirglielo così bruscamente.

— Volevo sistemare alcune vecchie faccende.

—È un po’tardi.

No, pensai, sarà tardi l’anno prossimo; ma finché siamo vivi, non è mai troppo tardi.

— Era tua nipote, quella che ha risposto? — domandai.

— Sì.

— Ho un figlio di sei anni. Si chiama Ricky, Richard Blaine Jericho. — Lasciai che il nome restasse sospeso in aria. Anche Gordon era un grande appassionato di Casablanca; forse quel nome l’avrebbe ammorbidito, pensai. Se gli avevo strappato un sorriso, però, non potevo vederlo per telefono.

Lui rimase in silenzio, così domandai: — Tu come te la passi, Gord?

— Bene. Sposato da trentadue anni, due figli e tre nipotini. — Aspettai un invito, un semplice: “E tu?”, che però non venne.

— Bene, volevo dirti solo questo. Che sono spiacente e rimpiango che sia andata in quel modo. — Era troppo aggiungere: “Vorrei che fossimo ancora amici”, perciò non lo dissi. Invece dissi: — Mi auguro che il resto della tua vita sia magnifico, Gord.

— Grazie — disse. E poi, dopo una pausa che pareva interminabile: — Anche per te.

Mi si sarebbe rotta la voce, se fossi rimasto ancora al telefono. — Grazie — dissi. E poi: — Addio.

— Addio, Tom.

E la linea divenne muta.

24

La nostra casa in Ellerslie aveva quasi cinquant’anni. Vi avevamo apportato migliorie, l’impianto centrale d’aria condizionata, un secondo bagno, la veranda che Tad e io avevamo costruito alcune estati prima. Una buona casa, piena di ricordi.

In quel momento però c’ero solo io, in casa… ed era insolito.

Avevo l’impressione di non essere mai da solo. Hollus era con me per un mucchio di tempo sul lavoro e quando non c’era lui, c’erano sempre gli altri paleontologi o gli studenti. E Susan, tranne quando andava in chiesa, non mi lasciava più a casa da solo. Non so se per sfruttare al massimo il poco tempo che ci restava o per timore che fossi peggiorato al punto da non resistere senza di lei neanche un paio d’ore.

Mi accadeva raramente d’essere a casa da solo, senza Susan o Ricky.

Non sapevo che cosa fare.

Guardare la tv, ma…

Quanto tempo avevo sprecato a guardare la tv, santo cielo? Un paio d’ore ogni sera… 700 ore all’anno. Per quarant’anni. La mia famiglia aveva comprato il primo televisore, in bianco e nero, nel 1960. 28.000 ore, pari a… Mio Dio. Tre anni interi.