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Robert Silverberg

L’inferno com’è?

A vent’anni Paul Dearborn ebbe per la prima volta il sospetto che sarebbe finito all’inferno. Se ne preoccupò, ma non a lungo.

A quarant’anni l’idea di andare all’inferno cominciò ad allettarlo. In fondo, il paradiso doveva essere estremamente monotono.

Ma quando ebbe sessant’anni il pensiero ricominciò a metterlo in leggero disagio. «Non che ne abbia paura» disse una sera dopo due birre di troppo. L’ometto male in arnese che gli stava accanto al banco del bar si limitò a sorridere. «Non mi fa paura per niente» ripeté Paul, con fermezza. «Solo… che mi infastidisce.»

«Come fa a essere tanto sicuro di finire laggiù?» chiese il piccolo uomo in tono curioso.

«In quanto a questo, non ne ho mai dubitato» disse Paul. «E badi, non provo amarezza. Ho vissuto una vita alquanto piacevole» aggiunse con scarsa convinzione «e sono pronto a pagarne il prezzo. Non ho rimpianti. Un’altra birra?»

«Sì, grazie» disse l’ometto.

Paul fece segno al cameriere di riempire nuovamente i bicchieri. «Io so dove andrò, d’accordo» disse. «Ma è la maledetta incertezza sulla natura del luogo, che mi tormenta. Se solo sapessi com’è quel posto…»

Gli occhi dell’ometto scintillarono. «Mi creda sulla parola, laggiù c’è molto caldo e puzzo di zolfo, e i peccatori bruciano in un lago di fuoco, e proprio al centro c’è il vecchio diavolo in persona, alto sul suo trono, con le corna affilate come spade, e la coda che va da una parte all’altra come quella di un gatto.»

Paul si mise a ridere con condiscendenza: «Oh no, a questo non ci posso credere. Sono cose che si dicevano nel novecentodieci alle lezioni domenicali dell’oratorio. Fuoco e puzzo di zolfo non mi convincono.» Scosse la testa.

L’altro si strinse nelle spalle. «Be’, se vuole essere individualista…»

«Proprio così» disse Paul, battendo il palmo della mano sul banco. «L’inferno è una questione individuale, esclusivamente individuale.»

Il suo compagno rimase a fissare in silenzio con occhi annebbiati la birra che restava in fondo al bicchiere. Paul ne bevve un’altra, poi guardò l’orologio, e decise che era ora di tornare a casa. Mise il denaro per le consumazioni sul banco, e uscì. Avrò quello che mi merito, pensò senza debolezze.

Si avviò alla fermata dell’autobus. Era una notte fredda, e il vento gli penetrava nelle ossa.

Era stanco. Adesso viveva solo. La sua ultima moglie era morta, e i figli erano diventati degli estranei. Aveva pochi amici. E molti nemici.

Girò l’angolo e si fermò, ansando. Il cuore, pensò. Ormai non mi resta più molto da vivere.

Ripensò ai suoi sessant’anni. I tradimenti, le delusioni, i peccati commessi, le sbornie e i doposbornia. Adesso aveva qualche soldo, e da un certo punto di vista poteva considerarsi un uomo di successo. Ma la vita non era certo stata un viaggio di piacere. Era stata dura, piena di paure, densa di dubbi e di tormenti. Condita da attimi di disperazione totale alternati a momenti di frustrazione rabbiosa.

Si rese conto di essere contento, addirittura felice, di essere quasi arrivato alla fine del cammino. La vita, lo capiva adesso, era stata una lotta continua e per la quale non valeva la pena di lottare. Sessant’anni di torture. Là c’era il suo autobus a mezzo isolato di distanza, e lui l’avrebbe perso e sarebbe stato costretto a rimanere per venti minuti al freddo.

Non era una gran cosa? Certo, ma moltiplicato per un milione di piccoli contrattempi e contrarietà disseminate lungo gli anni… fece lo sguardo torvo e cominciò a correre verso l’angolo.

E inciampò, e una mano fredda gli strinse con forza il cuore. Il marciapiede parve sollevarsi di scatto e salirgli incontro, e lui capì che quella era la morte. Per un breve attimo cercò di mantenere il controllo, poi si lasciò andare, mentre calava il buio. Provò un senso di gratitudine per il fatto che fosse finalmente finita… e una curiosità pungente per quello che sarebbe successo. Finalmente avrebbe saputo.

Dopo un’eternità aprì di nuovo gli occhi, e si guardò attorno. Allora, nel breve attimo di lucidità, prima che il Lete gli offuscasse i ricordi, capì cosa fosse l’inferno, seppe a quale punizione fosse stato condannato. Paul Dearborn strillò, più per la disperazione che per il dolore, quando la mano del ginecologo gli diede una pacca decisa sul sedere, e l’aria gli entrò nei polmoni.

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