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— Ho visto una cosa bizzarra, Luz.

Era un uomo strano Sasha: il più vecchio di tutti, anche se era solido e resistente e sopportava i disagi meglio di alcuni giovani; non perdeva mai la calma, era autosufficiente, quasi sempre taciturno. Luz non l’aveva mai visto partecipare a una conversazione se non con un sì o un no, un sorriso o una scrollata di capo. Lei sapeva che non aveva mai parlato alla Casa delle Riunioni, non aveva mai fatto parte del gruppo di Elia o di quello di Vera, non aveva mai ispirato le scelte della sua gente, sebbene fosse figlio di uno dei grandi eroi, quello Shults che aveva guidato la Lunga Marcia dalle vie di Moskva al porto di Lisbona e ancora oltre. Shults aveva avuto altri figli, ma erano morti durante i primi duri anni su Victoria; soltanto Sasha, l’ultimogenito, nato nel nuovo mondo, era sopravvissuto. E aveva generato un figlio maschio, e l’aveva visto morire. Non parlava mai: solo con lei, qualche volta. — Ho visto una cosa bizzarra, Luz.

— Che cosa?

— Un animale. — Sasha indicò sulla destra, sul ripido pendio di cespugli e alberi che adesso era una muraglia scura, nella luce evanescente. — C’è una piccola radura, lassù, dove sono caduti alcuni grossi alberi. Ho trovato qualche frutto d’aloe, e lo stavo cogliendo. Ho girato la testa: ho sentito qualcosa che mi guardava. Era dall’altra parte della radura. — Indugiò un momento, non per creare un effetto ma per poter descrivere con ordine.

— Anche quello raccoglieva frutti. In un primo momento ho creduto che fosse un uomo. Come un uomo. Ma non era molto più grosso di un coniglio quando si è lasciato ricadere sulle quattro zampe. Scuro, con la testa rossiccia, grande: sembrava troppo grande in proporzione. Un occhio centrale come quello dei cosè mi fissava. Aveva anche gli occhi laterali, credo, ma non ho visto bene. Mi ha fissato per un attimo e poi si è voltato ed è sparito tra gli alberi.

La voce di Sasha era bassa, calma.

— Mi sembra spaventoso — disse sommessamente Luz. — Non so perché. — Ma invece lo sapeva, ripensando al sogno degli esseri che venivano a spiare, anche se non li aveva più sognati da quando avevano abbandonato il labirinto degli arbusti spinosi.

Sasha scosse il capo. Erano accosciati, fianco a fianco, sotto un rozzo tetto di rami. Lui si passò la mano sui capelli, facendone cadere le^gocce di pioggia, e si lisciò gl’ispidi baffi grigi. — Qui non c’è nulla che possa farci del male. Eccettuati noi stessi. Nella città ci sono storie di animali che noi non conosciamo?

— No… soltanto gli scuri.

— Gli scuri?

— Vecchie storie. Esseri simili agli uomini, pelosi, con gli occhi torvi. Me ne parlava mia cugina Lores. Mio padre diceva che erano uomini: esuli, oppure pazzi che se n’erano andati e si erano inselvatichiti.

Sasha annuì. — Nessuno di loro sarebbe potuto arrivare tanto lontano — disse. — Noi siamo i primi.

— Noi siamo vissuti soltanto sulla costa. Immagino che ci siano animali che non abbiamo mai visto.

— E anche piante. Guarda quella. Somiglia alla biancabacca, ma non è la stessa. Non l’avevo mai vista, prima di ieri.

Dopo un po’, Sasha disse: — Non c’è un nome, per l’animale che ho vistò.

Luz annuì.

Tra lei e Sasha scese il silenzio, il legame del silenzio. Lui non parlò dell’animale agli altri, e non ne parlò neppure lei. Non sapevano nulla di quel mondo, il loro mondo: sapevano solo che dovevano camminare in silenzio finché avessero imparato il linguaggio adatto. Sasha era disposto ad attendere.

Scalarono la seconda catena, in un terzo giorno di pioggia. Trovarono una valle più lunga e meno profonda, dove il procedere era più agevole. Verso mezzogiorno il vento cambiò, soffiando dal nord e liberando la catena dalle nubi e dalla nebbia. Per tutto il pomeriggio salirono l’ultimo pendio: e quella sera, in un immenso e freddo chiarore, giunsero tra le massicce formazioni di rocce color ruggine della vetta, e videro le terre orientali.

Si radunarono a poco a poco, e i più lenti stavano ancora salendo faticosamente il pendio pietroso mentre i primi già li attendevano: piccole figure scure, agli occhi di quelli che salivano, contro un cielo vuoto e luminoso. L’erba corta e rada della cresta era rossastra nel tramonto. Si radunarono lassù, tutti e sessantasette, e guardarono il resto del mondo. Non parlarono molto. Il resto del mondo appariva assai vasto.

Le ombre della catena che avevano scalato si stendevano lontano sulla pianura. Aldilà delle ombre la terra era dorata: un oro nebuloso, rossiccio, invernale, vagamente striato e screziato dai corsi d’acqua e dalle masse delle collinette o dei boschi di alberanelli. Aldilà dell’altopiano, al limite della visibilità, le montagne si levavano contro l’immane e ventoso cielo incolore.

— Quanto distano? — chiese qualcuno.

— Cento chilometri per arrivare alla base, forse.

— Sono grandi…

— Come quelle che abbiamo visto al nord, sopra il lago Sereno.

— Forse è la stessa catena. Era disposta verso sudest.

— Quella pianura è come il mare: non finisce mai.

— Fa freddo, quassù.

— Scendiamo: saremo riparati dal vento.

Per molto tempo, dopo che l’altopiano sprofondò nel grigiore, il piccolo orlo di ghiaccio illuminato dal sole continuò a ardere al limite della visibilità, a est. Sbiancò e sbiadì; spuntarono le stelle, fitte nella tenebra ventosa, tutte le costellazioni, tutte le luminose città che non erano la loro patria.

Il riso palustre selvatico cresceva folto in riva ai corsi d’acqua dell’altopiano: si nutrirono di quello, durante gli otto giorni della traversata. Le Colline di Ferro rimpicciolirono dietro di loro, una linea corrugata color ruggine tracciata a occidente. La pianura era popolata di conigli, di una varietà dalle zampe più lunghe di quella delle foreste costiere: le rive dei fiumi erano traforate dalle loro tane, e quando il sole spuntava i conigli uscivano e sedevano a scaldarsi, e guardavano passare gli umani con occhi tranquilli e indifferenti.

— Solo uno stupido morirebbe di fame, qui — disse Holdfast, mentre Italia posava le trappole presso un guado.

Ma proseguirono. Il vento soffiava più pungente su quell’altopiano scoperto, e non c’era legname per costruire o per accendere i fuochi. Proseguirono fino a quando il terreno divenne ondulato, ai piedi delle montagne, e incontrarono un grande fiume che scorreva verso sud e che Andre, il cartografo, chiamò Rocciagrigia. Per attraversarlo dovevano trovare un guado, il che sembrava improbabile, o costruire qualche zattera. Alcuni volevano attraversare, mettersi alle spalle anche quella barriera. Altri volevano svoltare di nuovo verso sud, procedendo lungo la riva occidentale del fiume. In attesa di decidere, crearono il loro primo campo di sosta. Uno degli uomini si era fatto male a un piede, cadendo, e altri avevano piccole ferite e acciacchi; era necessario riparare le calzature; erano tutti stanchissimi e avevano bisogno di qualche giorno di riposo. Il primo giorno costruirono ripari di fascine e di foglietetto. Era freddo, e le nubi si addensavano anche se lì non soffiava il vento tagliente. Quella notte cadde la prima neve.

Nevicava raramente nella baia di Songe, e mai tanto presto. Non erano più nel clima caldo della costa occidentale. Le colline costiere, le maleterre e le Colline di Ferro catturavano la pioggia che i venti occidentali portavano dal mare; lì era più secco ma più freddo.

La grande catena verso la quale erano diretti, le aguzze vette di ghiaccio, era apparsa di rado mentre attraversavano la pianura; le nubi gonfie di neve nascondevano tutto, tranne i colli azzurri più bassi. Adesso erano tra quei colli, un rifugio tra la pianura ventosa e le vette tempestose. Erano entrati nella stretta valle di un fiume che si snodava e si allargava fino a sboccare nell’ampia e profonda gola del Rocciagrigia. Il fondovalle era coperto di foreste, alberanelli e lancotoni, ma c’erano molte radure. Le colline, sul lato nord, erano scoscese e accidentate, e riparavano la valle e i pendii meridionali, più bassi e aperti. Era un luogo ameno. Tutti si erano sentiti a loro agio, lì, mentre erigevano i loro rifugi, il primo giorno. Ma al mattino le radure erano imbiancate, e sotto gli alberanelli — sebbene le bronzee fronde avessero trattenuto la leggera neve — ogni pietra e ogni avvizzito filo d’erba scintillava di brina. Si strinsero intorno ai fuochi per riscaldarsi, prima di allontanarsi per raccogliere altra legna da ardere.