Mi sveglio al rumore di acqua corrente e per un secondo penso di essermi appisolato accanto alla cascata di Lodore durante la passeggiata con Brown. Ma quando apro gli occhi, il buio mi fa paura come mentre dormivo, l'acqua ha un suono malato, non la foga della cascata che Southey un giorno renderà famosa nella sua poesia, e mi sento malissimo, non solo per il mal di gola con cui sono tornato dalla gita, dopo che io e Brown abbiamo stupidamente scalato lo Skiddaw prima di colazione, ma mortalmente, paurosamente malato, con il corpo che mi duole per qualcosa di più profondo della febbre ricorrente, mentre catarro e fuoco mi gorgogliano nel petto e nel ventre.
Mi alzo e a tastoni vado alla finestra. Una luce fioca proviene da sotto la porta della stanza di Leigh Hunt: è andato a dormire senza spegnere la lampada. Non sarebbe stato male se l'avessi fatto anch'io, mi dico; ma ormai è tardi per accenderla e mi dirigo al rettangolo più chiaro delle tenebre esterne contro il buio più intenso della stanza.
L'aria è fresca e piena del profumo di pioggia. Sono stato svegliato dal tuono, capisco quando il lampo illumina i tetti di Roma. Non una luce brilla nella città. Sporgendomi un poco dalla finestra, vedo la scalinata sopra la piazza, lucida di pioggia, e le torri di Trinità dei Monti che si stagliano, nere, contro il bagliore dei lampi. Il vento che soffia giù per i ripidi scalini è freddo; ritorno al letto e mi avvolgo in una coperta, prima di trascinare alla finestra la poltrona e sedermi a guardare fuori e a pensare.
Ricordo mio fratello Tom, durante le ultime settimane e gli ultimi giorni, con il viso e il corpo contorti nel terribile sforzo di respirare. Ricordo mia madre e il pallore del suo viso, quasi risplendente nella penombra della stanza oscurata. Mia sorella e io avevamo il permesso di toccarle la mano appiccicaticcia e di baciarle le labbra calde per la febbre, prima di andare a letto. Ricordo che una volta, uscendo dalla stanza, mi pulii di nascosto le labbra, guardando di sottecchi mia sorella e gli altri per scoprire se avevano visto quell'atto peccaminoso.
Quando il dottor Clark e un chirurgo italiano aprirono il corpo di Keats meno di trenta ore dopo la morte, trovarono, come in seguito Severn scrisse a un amico, "… la consunzione peggiore possibile… i polmoni interamente distrutti… le cellule completamente scomparse". Né il dottor Clark, né il chirurgo italiano riuscivano a immaginare come Keats fosse vissuto negli ultimi due mesi.
Penso a questo, mentre siedo nella stanza buia e guardo la piazza buia, e intanto ascolto il gorgoglio nel petto e nella gola, sento il dolore simile a fuoco nelle viscere e quello, peggiore, delle grida nella mente: grida di Martin Sileno sull'albero, che soffre perché ha scritto la poesia che sono stato troppo fragile o codardo per terminare; grida di Fedmahn Kassad, che si prepara a morire sotto gli artigli dello Shrike; grida del Console, costretto una seconda volta a tradire; grida che sgorgano dalla gola di migliaia di Templari che piangono la morte del loro mondo e del confratello Het Masteen; grida di Brawne Lamia, che crede morto il suo amato, il mio gemello; grida di Paul Duré, che lotta contro le ustioni e lo choc del ricordo, fin troppo consapevole del crucimorfo in attesa sul suo petto; grida di Sol Weintraub, che batte a terra i pugni e chiama a gran voce la figlia, con gli strilli infantili di Rachel ancora nelle orecchie.
— Maledizione — dico piano, battendo il pugno sulla pietra e la calcina del davanzale. — Maledizione.
Dopo un poco, quando già il cielo impallidisce e promette l'alba, mi scosto dalla finestra e mi distendo sul letto, solo un momento per chiudere gli occhi.
Il governatore generale Theo Lane si svegliò al suono di musica e si guardò intorno: riconobbe, come se li avessi sognati, la vasca di liquido nutritivo e l'ambulatorio della nave. Indossava un morbido pigiama nero e aveva dormito sul lettino per le visite mediche. A poco a poco, con brandelli di ricordi, ricucì le ultime dodici ore: era stato tolto dalla vasca di cura, gli avevano applicato dei sensori, il Console e un altro uomo, chini su di lui, gli ponevano domande… e lui rispondeva come se fosse davvero cosciente; poi di nuovo sonno, sogni di Hyperion e delle sue città in fiamme. No, non sogni.
Theo si alzò a sedere, quasi galleggiò giù dal lettino, trovò i vestiti, puliti e ben piegati sopra un vicino ripiano, si vestì in fretta ascoltando la musica alzarsi e affievolirsi con un ritmo ossessionante che suggeriva che fosse dal vivo, non registrata.
Salì la breve scaletta del ponte di soggiorno e si bloccò, sorpreso: la nave era aperta, la loggia sporgeva all'esterno, il campo di contenimento non era in funzione. La gravità molto bassa, un quinto di quella di Hyperion, forse un sesto della gravità standard, bastava appena a tenerlo fermo sul ponte.
La vivida luce del sole entrava dalla porta spalancata della loggia dove il Console suonava l'antiquato strumento che aveva chiamato pianoforte. Theo riconobbe l'archeologo, Arundez, appoggiato allo stipite, con un bicchiere in mano. Il Console suonava un brano molto antico e molto complesso: le dita sfioravano la tastiera, simili a una macchia confusa di movimento. Theo si avvicinò, aprì bocca per mormorare qualcosa ad Arundez, si bloccò, stupito, a occhi spalancati.
Al di là della loggia, trenta metri più in basso, la vivida luce del sole illuminava un prato di un verde brillante che si estendeva fino all'orizzonte troppo vicino. Su quel prato, gruppetti di persone beatamente sedute e sdraiate ascoltavano il concerto improvvisato. Ma che persone!
C'erano individui alti e magri, simili agli esteti di Epsilon Eridani, pallidi e calvi nelle vesti azzurre e leggere; ma accanto a loro c'era una sorprendente moltitudine di tipi, una varietà mai vista nella Rete: umani coperti di pelliccia e di scaglie; umani con il corpo e gli occhi simili a quelli delle api, ricettori sfaccettati e antenne; umani fragili e sottili come statue di fil di ferro, con le grandi ali nere che sporgevano dalle spalle minuscole e si ripiegavano come mantelli intorno al corpo; umani chiaramente progettati per mondi ad alta gravità, bassi, tozzi e muscolosi come bufali, al cui confronto i lusiani sarebbero parsi fragili; umani con il corpo corto e le braccia lunghe, coperti di pelo arancione, che solo il viso chiaro e sensibile distingueva dagli oranghi della Vecchia Terra estinti da gran tempo; e altri umani che somigliavano più a lemuridi, ad aquile, a leoni, a orsi, ad antropoidi che a uomini. Eppure Theo intuì subito che erano esseri umani, per quanto sconvolgenti fossero le differenze: lo sguardo attento, la posa rilassata, cento altri sottili attributi umani… fino al modo in cui una madre dalle ali di farfalla cullava fra le braccia il figlio dalle ali di farfalla… tutto testimoniava una comune umanità che Theo non poteva negare.
Melio Arundez si girò, sorrise nel vedere l'espressione di Theo e gli bisbigliò: — Ouster.
Sordito, Theo Lane non poté far altro che scuotere la testa e ascoltare la musica. Gli Ouster erano dei barbari, non quelle creature belle e a volte eteree creature. I prigionieri Ouster su Bressia, per non parlare dei cadaveri dei fanti, erano stati tutti di un tipo… alti, sì, magri, sì, ma molto più simili allo standard della Rete di quanto non lo fosse quello spiegamento di varietà strabiliante.
Theo scosse di nuovo la testa, mentre il brano di musica si alzava in un crescendo e terminava con una nota definitiva. Le centinaia di creature sul prato all'esterno applaudirono, con rumore alto e morbido nell'aria rarefatta, poi si alzarono, si sgranchirono e si allontanarono in varie direzioni… alcuni scomparvero in fretta al di là dell'impressionante orizzonte troppo vicino, altri aprirono ali di otto metri e volarono via. Altri ancora si avvicinarono alla nave.