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I poliziotti spararono gas lacrimogeni e granate a vertigine. Fra la folla e il teleporter, comparvero con un sibilo e un bagliore violetto i campi d'interdizione. Una squadriglia di VEM militari e di skimmer della sicurezza calò sulla città, con i riflettori che foravano il buio. Un raggio di luce mi sorprese, mi tenne prigioniero finché il mio comlog non ammiccò a un segnale interrogativo, poi passò oltre. Iniziò a piovere.

"L'equanimità è servita!"

I poliziotti controllavano il terminex pubblico di Rifkin Heights e varcavano il portale privato del Protettorato Atmosferico di cui mi ero servito. Decisi di andare altrove.

C'erano commandos della FORCE, di guardia ai corridoi della Casa del Governo: esaminavano gli arrivi teleporter, nonostante il fatto che quello fosse uno dei portali di più difficile accesso di tutta la Rete. Oltrepassai tre posti di controllo, prima di arrivare all'ala funzionari/residenti dove alloggiavo. A un tratto le guardie svuotarono il corridoio principale e tennero sotto controllo le diramazioni; passò Gladstone, accompagnata da una mulinante folla di consiglieri, di segretari, di capi militari. Mi vide, si fermò coinvolgendo la scorta e mi parlò attraverso la barriera di marines in tenuta da combattimento.

— Come le è sembrato il discorso, signor Nessuno?

— Bello — dissi. — Commovente. E, se non sbaglio, rubato a Winston Churchill.

Gladstone sorrise e scrollò leggermente le spalle. — Se bisogna rubare, meglio rubare ai maestri dimenticati. — Il sorriso svanì. — Notizie dalla frontiera?

— Appena adesso si comincia a recepire la realtà — risposi. — C'è da aspettarsi il panico.

— Me l'aspetto sempre. Novità sui pellegrini?

Rimasi sorpreso. — I pellegrini? Non ho… sognato.

La corrente della scorta e degli eventi cominciò a spingere il PFE lungo il corridoio. — Forse non ha più bisogno di dormire, per sognare — disse Gladstone, allontanandosi. — Provi.

La guardai sparire, ottenni il permesso di andare nel mio alloggio, trovai la porta e mi scostai, disgustato. La mia era una ritirata, per la paura e lo choc dell'orrore che scendeva su tutti noi. Sarei stato ben contento di starmene disteso nel letto, evitando il sonno, con le coperte tirate fin sotto il mento, a piangere sulla Rete, sulla piccola Rachel, su me stesso.

Lasciai l'ala residenziale, uscii nel giardino interno, vagai fra sentieri di ghiaia. Minuscole microguardie ronzavano nell'aria come api; una mi seguì attraverso il giardino di rose e nella zona dove un sentiero infossato si snodava fra umide piante tropicali, e poi nella sezione Vecchia Terra, accanto al ponticello. Mi sedetti sulla panchina di pietra, nel punto dove avevo discusso con Gladstone. "Forse non ha più bisogno di dormire, per sognare. Provi." Tirai sulla panchina i piedi, appoggiai il mento alle ginocchia, con la punta delle dita mi premetti le tempie e chiusi gli occhi.

32

Martin Sileno si torce e si dibatte nella pura poesia del dolore. Una spina d'acciaio, lunga due metri, gli entra fra le scapole, gli esce dal torace e si protende ancora per un metro in una punta orribile e rastremata. Le braccia non arrivano a toccarla. La spina è priva di qualsiasi asperità, le mani sudate non vi fanno presa. Anche se è scivolosa al tatto, il corpo non scivola: Martin Sileno è impalato solidamente, come una farfalla infilzata per l'esposizione.

Non c'è sangue.

Nelle ore in cui la razionalità era tornata attraverso la folle nebbia della sofferenza, Martin Sileno si era chiesto il motivo. Non c'è sangue. Ma c'è sofferenza. Oh, sì, c'è sofferenza a non finire… sofferenza che trascende la più folle fantasia del poeta sull'essenza del dolore, sofferenza che trascende la sopportazione umana e i confini del dolore.

Ma Sileno sopporta. E Sileno soffre.

Urla per la millesima volta: un grido stridulo, vuoto di contenuto, privo di linguaggio, perfino di oscenità. Le parole non riescono a dare l'idea di una simile sofferenza. Sileno urla e si contorce. Dopo un poco, si affloscia; la lunga spina vibra leggermente in risposta. Altri penzolano sopra, sotto, dietro di lui, ma Sileno spreca pochissimo tempo per osservarli. Ciascuno è isolato nel suo bozzolo personale di sofferenza.

"Perché questo è l'inferno" pensa Sileno, citando Marlowe, "e non ne sono fuori."

Ma sa che non è l'inferno. Né la vita dopo la morte. E sa pure che non è una sottobranca della realtà; la spina gli passa attraverso il corpo! Otto centimetri d'acciaio organico attraverso il petto! Eppure non è morto. Non sanguina. Quel luogo era da qualche parte ed era qualcosa, ma non l'inferno e neppure un posto vìvente.

Il tempo era strano, lì. Sileno sapeva già che il tempo si allunga e rallenta — la sofferenza del nervo esposto, sulla poltrona del dentista; il dolore dei calcoli renali, nella sala d'attesa di un ospedale — il tempo poteva rallentare, all'apparenza non muoversi affatto, mentre le lancette di un oltraggiato orologio biologico rimanevano ferme per lo choc. Ma il tempo si era mosso, allora. Il canale radicolare era perfetto. L'ultramorfina finalmente arrivava, agiva. Ma qui l'aria stessa è immobile per l'assenza di tempo. Il dolore è l'increspatura e la spuma di un'onda che non si frange.

Sileno urla, di furia e di dolore. E si contorce sulla spina.

— Maledetto! — riesce a dire finalmente. — Maledetto bastardo figlio di puttana. — Le parole sono resti di una vita differente, manufatti del sogno vissuto prima della realtà dell'albero. Sileno ricorda appena quella vita, come ricorda appena quando lo Shrike l'ha portato lì, l'ha impalato lì, l'ha lasciato lì.

— Oddiooo! — urla. Afferra a due mani la spina, cerca di spostarsi in su per dare sollievo al peso del corpo che si aggiunge incommensurabile al dolore sconfinato.

C'è un paesaggio, in basso. Può vederlo per miglia e miglia. È un impietrito diorama di cartapesta della Valle delle Tombe del Tempo e del deserto. Anche la città morta e le lontane montagne sono riprodotte in miniatura plastificata, sterile. Non importa. Per Martin Sileno ci sono solo l'albero e la sofferenza; e le due cose sono indivisibili. Sileno snuda i denti in un sorriso screpolato dal dolore. Quand'era bambino, sulla Vecchia Terra, lui e Amalfi Schwartz, il suo migliore amico, avevano visitato una comune di cristiani nella Riserva Nordamericana, avevano imparato la loro rozza teologia e in seguito avevano fatto molte battute ironiche sulla crocifissione. Il giovane Martin aveva allargato le braccia, incrociato le gambe, sollevato la testa e dichiarato: «Oddio, da qui vedo tutta la città». Amalfi era scoppiato a ridere.

Sileno urla.

Il tempo non passa veramente, ma dopo un poco la mente di Sileno torna a qualcosa che sembra l'osservazione lineare… qualcosa di diverso dalle oasi disperse di pura sofferenza, separate dal deserto di dolore ricevuto scioccamente… e in quella percezione lineare della propria sofferenza, Sileno comincia a imporre tempo su un luogo senza tempo.

Per prima cosa, le oscenità aggiungono chiarezza alla sofferenza. Urlare fa male, ma la rabbia chiarisce e chiarifica.

Poi, nelle pause esauste fra le urla o i puri spasmi di dolore, Sileno si concede pensiero. All'inizio si tratta semplicemente di un tentativo di mantenere sequenze, di recitare a mente le tabelline, qualsiasi cosa che separi la sofferenza di dieci secondi prima dalla sofferenza a venire. Sileno scopre che, nello sforzo di concentrarsi, la sofferenza diminuisce un poco: è sempre insopportabile, spinge sempre come fumo al vento ogni pensiero, ma diminuisce di una quantità imprecisabile.