Paul Duré chiuse gli occhi e pregò.
37
Camminiamo per tutto il giorno, Hunt e io, e verso sera troviamo una locanda in cui c'è del cibo preparato per noi — un pollo, budino di riso, cavolfiore, un piatto di maccheroni e altro — anche se non ci sono persone, né segni di persone, a parte il fuoco che arde come se sia stato appena acceso e il cibo ancora caldo sui fornelli.
Hunt è spaventato, per questa scoperta e per i terribili sintomi di privazione dovuti alla perdita di contatto con la sfera dati. Capisco benissimo la sua sofferenza. Per una persona nata e cresciuta in un mondo dove i dati sono sempre a portata di mano, la comunicazione con chiunque in qualsiasi posto è un fatto assodato e la distanza significa solo un passo nel teleporter: l'improvviso ritorno alla vita come la conobbero i nostri antenati sarebbe come risvegliarsi ciechi e storpi. Ma dopo le escandescenze delle prime ore di camminata, Hunt alla fine è diventato tetro e taciturno.
— Ma il PFE ha bisogno di me! — aveva gridato all'inizio.
— Ha bisogno delle informazioni che le portavo — replicai. — Però non possiamo farci niente.
— Ma dove siamo? — domandò Hunt per la decima volta.
Gli avevo già spiegato l'esistenza di questa Vecchia Terra alternativa, ma adesso si riferiva ad altro.
— In quarantena, credo — risposi.
— Il Nucleo ci ha portati qui?
— Posso solo presumerlo.
— Come torniamo?
— Non so. Immagino che, quando si sentiranno sicuri, comparirà un teleporter.
Hunt imprecò sottovoce. — Perché mettere in quarantena anche me, Severn?
Mi strinsi nelle spalle. Forse perché aveva udito quel che avevo detto su Pacem, ma non ne ero sicuro. Non ero sicuro di niente.
La strada attraversava prati e vigneti, serpeggiava su basse colline e vallate da dove si scorgeva di sfuggita il mare.
— Dove va, questa strada? — aveva domandato Hunt, proprio prima che scoprissimo la locanda.
— Tutte le strade portano a Roma.
— Dico sul serio, Severn.
— Anch'io, signor Hunt.
Hunt scalzò dalla massicciata una pietra e la tirò lontano fra i cespugli. Da qualche parte un tordo lanciò un richiamo.
— Lei è già stato qui? — Il tono di Hunt era di accusa, come se l'avessi rapito io. E forse era vero.
— No — risposi. Ma Keats sì, aggiunsi quasi. I ricordi impiantati vennero alla superficie, rischiarono di sopraffarmi con il senso di perdita e di morte incombente. Lontano dagli amici, lontano da Fanny, l'unico eterno amore di Keats.
— È sicuro di non poter accedere alla sfera dati? — domandò Hunt.
— Sicurissimo — risposi. Non mi chiese della megasfera e non gli diedi spontaneamente l'informazione. Ho il terrore di entrare nella megasfera, di perdermi al suo interno.
Al tramonto trovammo la locanda. Era annidata in una piccola valle e dal camino di pietra si alzava il fumo.
Mentre mangiavamo, e il buio premeva contro i vetri, e come unica luce avevamo il tremolio del fuoco e due candele sulla mensola del caminetto di pietra, Hunt disse: — Questo posto mi fa quasi credere ai fantasmi.
— Io ci credo, ai fantasmi — risposi.
Notte. Mi sveglio tossendo, sento dell'umido sul petto nudo; Hunt armeggia con la candela e alla luce vedo sangue sulla pelle, macchie sulle lenzuola.
— Oddio — mormora Hunt, inorridito. — Cos'è? Cosa succede?
— Emorragia — riesco a dire, dopo che un altro attacco di tosse mi lascia più debole e più sporco di sangue. Faccio per alzarmi, ricado sul guanciale, indico la bacinella di acqua e l'asciugamano sul comodino.
— Maledizione, maledizione — borbotta Hunt, cercando il mio comlog per avere una lettura medica. Non c'è comlog. Quel giorno stesso, durante la camminata, ho buttato via l'inutile strumento di Hoyt.
Hunt si toglie il comlog, regola il monitor, me lo lega al polso. Le letture non hanno significato, per lui, indicano solo la necessità di cure mediche immediate. Come molti della sua generazione, Hunt non ha mai visto malattie né morte… materia professionale trattata lontano dagli occhi della gente comune.
— Non ci badi — mormoro, non più assediato dalla tosse, ma appesantito dalla stanchezza come da una coltre di pietre. Indico di nuovo l'asciugamano; Hunt lo inumidisce, mi lava il sangue sul petto e sulle braccia, mi aiuta a sedermi nell'unica poltrona, cambia le lenzuola e le coperte macchiate.
— Sa che cosa le succede? — domanda, con preoccupazione genuina.
— Sì. — Tento un sorriso. — Accuratezza. Verosimiglianza. Ontogenesi che riassume filogenesi.
— Parli chiaro — sbotta Hunt. Mi aiuta a ridistendermi sul letto. — Cosa ha provocato l'emorragia? Come posso aiutarla?
— Mi dia un bicchiere di acqua, per favore. — Sorseggio l'acqua, sento il rimescolio nel petto e in gola, ma riesco a evitare un altro attacco di tosse. Mi sembra di avere il ventre in fiamme.
— Cosa le succede? — domanda di nuovo Hunt.
Parlo lentamente, con cura, mettendo ogni parola al suo posto come se posassi i piedi in un campo disseminato di mine. La tosse non torna. — Una malattia chiamata consunzione — dico. — Tubercolosi. All'ultimo stadio, a giudicare dalla gravità dell'emorragia.
Il viso da basset-hound di Hunt è livido. — Buon Dio, Severn. Non ho mai sentito parlare di tubercolosi. — Alza il polso come per consultare la memoria del comlog, ma il polso è nudo.
Gli restituisco il comlog. — La tubercolosi è scomparsa da secoli. Sconfitta. Ma John Keats ne era affetto. Ne morì. E questo corpo cìbrido appartiene a Keats.
Hunt sembra pronto a correre alla porta per chiamare aiuto. — Il Nucleo ci consentirà di tornare, adesso! Non possono tenerla qui, in questo mondo abbandonato, dove non esiste assistenza medica!
Poso la testa sul morbido guanciale, sentendo le piume sotto la fodera. — Forse è proprio questo, il motivo per cui mi tengono qui. Vedremo domani, quando arriveremo a Roma.
— Ma lei non può viaggiare! Non andremo da nessuna parte, domani.
— Vedremo — dico. Chiudo gli occhi. — Vedremo.
Al mattino, una vettura, una piccola carrozza, è in attesa all'esterno della locanda. Il cavallo, una grossa giumenta grigia, rotea gli occhi nel vederci avvicinare. Il suo fiato si condensa nell'aria fredda.
— E questo cos'è? — dice Hunt.
— Un cavallo.
Hunt tocca il fianco dell'animale, sembra aspettarsi che scoppi e svanisca come una bolla di sapone. Non succede niente. La giumenta muove la coda e Hunt ritira di scatto la mano.
— I cavalli sono estinti — dice. — Non sono mai stati ARNizzati, riportati in vita.
— Questo mi sembra abbastanza reale — dico. Salgo a fatica sulla carrozza e mi siedo sulla stretta panca.
Hunt si siede cautamente accanto a me, inquieto. — Chi guida? — dice. — Dove sono i comandi?
Non ci sono redini e il sedile del cocchiere è vuoto. — Vediamo se il cavallo conosce la strada — suggerisco. In quell'istante iniziamo a muoverci ad andatura tranquilla; la carrozza, priva di ammortizzatori, sobbalza sulle pietre e sui solchi della strada accidentata.
— È una sorta di scherzo, vero? — dice Hunt, fissando il cielo azzurro e perfetto, i campi lontani.
Tossisco, per quanto possibile piano e brevemente, nel fazzoletto che mi sono fatto con l'asciugamano preso in prestito dalla locanda. — Può darsi — rispondo. — Ma allora, cosa non lo è?
Hunt non bada alla mia sofisticheria. Continuiamo a procedere fra scosse e sobbalzi verso chissà quale destinazione e chissà quale destino.
— Dove sono Hunt e Severn? — domandò Meina Gladstone.
Sedeptra Akasi, una giovane donna nera, il secondo aiutante di Gladstone in ordine di importanza, si sporse verso il PFE per non interrompere la conferenza informativa militare. — Ancora nessuna notizia, signora.
— Impossibile. Severn aveva un tracciatore e Leigh è andato su Pacem quasi un'ora fa. Dove diavolo sono?
Akasi diede un'occhiata al fax-notes aperto sul piano del tavolo.