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Si scosse, e guardò Rawlins. Dimostrava dai ventuno ai ventitré anni, ed era il ritratto dell’ingenuità giovanile, anche se Boardman sapeva che era vissuto abbastanza per avere imparato più di quanto non desse a vedere. Era alto e bello senza l’aiuto di chirurgia estetica, con i capelli biondi, gli occhi azzurri, bocca grande e labbra ben modellate, denti candidi. Era figlio di un esperto in comunicazioni, ora morto, che era stato amico intimo di Richard Muller. Boardman contava appunto su questo legame per condurre a buon termine la delicata missione che gli era stata affidata.

«Ma quando atterriamo?» chiese Ned, impaziente.

«Ancora un minuto.» I lineamenti del giovane erano appena alterati dalle forze che agivano su di lui. Soltanto la guancia sinistra pendeva leggermente verso il basso. E quella specie di smorfia sulla sua faccia radiosa faceva un effetto curioso.

«Ci siamo» mormorò Boardman, chiudendo gli occhi. La nave divorò la breve distanza che la separava ancora dal pianeta, gli eiettori tacquero e i razzi di decelerazione ringhiarono per l’ultima volta. Un attimo di incertezza, poi la solidità della terraferma e il silenzio. Siamo arrivati pensò Boardman. Adesso, andiamo al labirinto e scoviamo Muller. Mi auguro che sia diventato più sopportabile in questi nove anni. … Forse è tornato normale. Che Dio ci aiuti!

3

Nei recessi del labirinto, immobile nella luce verde e lattiginosa dell’osservatorio, Muller osservava la nave, le cupole di plastica spuntate accanto allo scafo, e le minuscole figure degli uomini affaccendati là attorno. Ora gli spiaceva di non essere riuscito a scoprire il comando della sintonia: le immagini che riceveva erano tutte sfuocate. Comunque era già fortunato a potersi servire dell’osservatorio; parte delle attrezzature che si trovavano nella città erano inutilizzabili da lunghissimo tempo, perché questo o quel meccanismo d importanza vitale si erano guastati. Gli strumenti che avevano superato i millenni erano un monumento all’abilità tecnica dei costruttori, ma Muller era riuscito a scoprire il funzionamento soltanto di alcuni, e anche quelli li usava in modo imperfetto.

Osservò gli uomini che lavoravano alacremente, e si chiese quale nuovo tormento stessero preparandogli.

Quando era fuggito dalla Terra, aveva cercato di non lasciare tracce. Era arrivato lì su una nave presa a nolo, dichiarando, a mezzo Sigma Draconis, un piano di volo immaginario. Aveva dovuto superare sei stazioni di controllo durante il viaggio, ma a ciascuna aveva segnalato un percorso galattico falso. Attraverso il controllo periodico delle varie stazioni avrebbero scoperto che le posizioni comunicate una dopo l’altra da Muller non corrispondevano alla realtà. In questo modo lui aveva sperato di garantirsi la prosecuzione del suo viaggio prima della mèta finale e comunque prima che venisse effettuata un’ispezione. Aveva avuto fortuna: nessuna astronave era stata inviata per fermarlo.

Una volta arrivato in prossimità di Lemnos, aveva lasciato l’astronave in un’orbita di parcheggio, ed era sceso con una capsula d’atterraggio. Una bomba dirompente precedentemente programmata aveva disintegrato la nave al momento stabilito, sparpagliandone i frammenti nell’Universo. Ci sarebbe voluto un calcolatore davvero fantastico per trovare un nesso fra tutti quei frammenti e il punto preciso dell’esplosione! La bomba era stata progettata in modo da imprimere cinquanta false direzioni per ogni metro quadrato della superficie di esplosione, dando così la garanzia che nessun calcolatore avrebbe potuto compiere un lavoro efficace in un periodo di tempo finito. E Muller aveva bisogno di un tempo brevissimo: una sessantina d’anni. Sessant’anni di solitudine e una morte tranquilla. Non chiedeva altro.

Davvero l’avevano scoperto?

No, impossibile. E poi, non avevano motivo di inseguirlo: non era un fuggiasco che dovesse rendere conto alla Giustizia. Era semplicemente un uomo afflitto da un male odioso, che lo rendeva inviso agli altri esseri della sua specie, e certamente la Terra era felice di essersi sbarazzata di lui. La cosa migliore che potesse fare per gli uomini era di togliersi dai piedi, e lui l’aveva fatto nel modo più completo possibile.

Ma chi erano, allora, quegli intrusi?

Forse archeologi. Le rovine della città di Lemnos avevano un fascino irresistibile per loro, per tutti. Muller aveva sperato che i pericoli del labirinto continuassero a tenere lontani gli uomini. Era stato scoperto da oltre un secolo, ma, ultimamente, da parecchi anni, tutti lo evitavano, e per una buona ragione. Muller aveva visto gli scheletri di coloro che avevano tentato di penetrare nel dedalo di strade e che non ne erano usciti mai più.

Comodamente sistemato al centro del labirinto, Muller poteva servirsi di un numero di dispositivi sufficienti a controllare, anche se in modo confuso, le mosse di qualsiasi creatura vivente che si trovasse all’esterno. Così era in grado di individuare gli spostamenti degli animali di cui si nutriva e delle bestie pericolose. Poteva anche controllare le insidie del labirinto, ma fino a un certo punto. In genere si trattava di trabocchetti costruiti a scopo difensivo, ma che potevano essere impiegati anche per fronteggiare eventuali nemici. Si chiese se avrebbe mai trovato il coraggio di usare quei mezzi contro esseri umani che avessero osato penetrare nella città. Non seppe darsi una risposta. In fondo non odiava veramente la sua razza. Voleva semplicemente essere lasciato in pace.

Guardò gli schermi. Si trovava in un locale esagonale, dentro un edificio della città interna. Su una parete era allineata una serie di monitor. Gli ci era voluto più di un anno per scoprire quali zone del labirinto corrispondessero alle immagini dei vari schermi, ma disseminando pazientemente segni di riferimento dappertutto, era riuscito ad accoppiare le immagini ai diversi punti della città. I sei schermi in basso mostravano le varie zone, dalla A alla F; le telecamere, o cos’altro erano, ruotavano sul loro asse per un arco di 180 gradi, permettendo ai misteriosi «occhi» nascosti di scrutare tutta l’area circostante l’entrata di ciascuna zona. Poiché soltanto una porta permetteva di accedere all’anello più interno, e le altre conducevano alla morte, Muller aveva modo di controllare il cammino di qualsiasi intruso.

Gli schermi numero sette, otto, nove e dieci, che costituivano la fila superiore, registravano immagini provenienti dalle zone G e H, quelle più esterne, più vaste e più pericolose del labirinto. Muller non aveva voluto tornare là per scoprire altri particolari; gli bastava sapere chi i video erano in collegamento con le varie zone. Non valeva certo la pena di correre rischi per localizzare esattamente gli «occhi». L’undicesimo e il tredicesimo schermo inquadravano la pianura esterna al labirinto, dove ora si trovava l’astronave appena arrivata dalla Terra.

Non tutte le opere degli antichi costruttori erano altrettanto utili e comprensibili. Nella piazza centrale della città, sistemata su una pedana e riparata da una cupola di cristallo, c’era una pietra color rubino. Presentava dodici sfaccettature, e nel suo interno ticchettava e pulsava un meccanismo sconosciuto.

Muller riteneva che si trattasse di una specie di orologio collegato a un’oscillazione nucleare, che scandiva le unità di tempo impiegate dal costruttore. Periodicamente la pietra subiva alcuni mutamenti temporanei: la sua superficie si appannava, il colore diventava più scuro, volgendo al blu e perfino al nero, ed essa cominciava a ruotare sul proprio asse. Muller annotava tutto accuratamente, ma non era ancora riuscito a capire il significato di quei mutamenti. Non poteva neanche analizzarne la periodicità. I cambiamenti non si verificavano a caso, ma la chiave per interpretare il fenomeno gli sfuggiva.