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«Sarà bene» rispose Jeserac «parlarci con la massima sincerità. Entrambi sappiamo che Alvin è Unico, che non ha mai avuto altre vite precedenti.

Forse intuite meglio di me ciò che questo significa. Nulla di ciò che accade in città è realmente imprevisto, quindi immagino che la sua nascita abbia uno scopo. Se Alvin riuscirà a raggiungere questo scopo, qualunque esso sia, non lo so. Tanto meno so se ciò sia bene o sia male. Non riesco nemmeno a immaginare quale sia questo scopo.»

«Se riguardasse qualcosa all’esterno della città?»

Jeserac sorrise; il Buffone stava tentando uno dei suoi scherzi.

«Ho detto ad Alvin come stanno le cose. Sa benissimo che fuori di Diaspar non c’è che deserto. Portatelo là, se potete: forsevoiconoscete qualche uscita segreta. Quando Alvin vedrà la realtà, gli passeranno i capricci.»

«Deve averla già vista» mormorò Khedron. Jeserac non udì.

«Non credo che Alvin sia felice» continuò il tutore. «Non è attaccato a nulla, e sarà difficile che possa trovare interesse in qualcosa finché soffrirà di questa forma di ossessione. D’altra parte, è molto giovane. Può darsi che superi questa fase e finisca con l’acclimatarsi a Diaspar.»

Jeserac parlava più che altro per rassicurare se stesso; Khedron si chiese se fosse veramente convinto di ciò che stava dicendo.

«Ditemi, Jeserac» l’interruppe bruscamente «Alvin lo sa di non essere il primo Unico?»

Il tutore lo guardò storto.

«Dunque lo sapete. C’era da aspettarselo» mormorò. «Quanti Unici sono esistiti nella storia di Diaspar? Una decina?»

«Quattordici» fece Khedron senza esitare. «Senza contare Alvin.»

«Siete meglio informato di me» osservò l’altro seccamente. «Sapreste anche dirmi cosa è accaduto agli altri Unici?»

«Sono scomparsi.»

«Grazie, lo sapevo già. Ecco perché ho detto ad Alvin il meno possibile sui suoi predecessori; apprendere queste cose potrebbe turbarlo anche di più. Posso contare sulla vostra cooperazione?»

«Per il momento sì. Voglio studiare meglio Alvin. I misteri mi attirano, e a Diaspar non ce ne sono molti. E poi, ho il sospetto che il Destino stia preparando una burla a confronto della quale tutti i miei sforzi sarebbero ben miseri. Se è così, voglio essere presente nel momento in cui si compie.»

«Vi divertite a parlare per enigmi» protestò Jeserac. «Quali sono in realtà le vostre previsioni?»

«Le mie ipotesi valgono quanto le vostre. Ma di una cosa sono certo: né voi né io né chiunque altro a Diaspar potrà fermare Alvin quando avrà deciso ciò che vorrà fare. Scommetto che vivremo alcuni secoli alquanto interessanti.»

Jeserac rimase seduto, immobile, completamente dimentico della sua matematica, anche dopo la scomparsa del Buffone. Aveva uno strano presentimento, cosa che non gli era mai capitata. Per un attimo ebbe la tentazione di chiedere udienza al Consiglio, ma forse stava esagerando e avrebbe provocato molto rumore per nulla. Forse tutta la faccenda era solo una complicata e oscura macchinazione di Khedron, anche se lui non riusciva a comprendere quale ne fosse lo scopo.

Ripensò a ciò che si erano detti, esaminando il problema da ogni possibile punto di vista. E dopo un’ora circa prese una decisione che gli era caratteristica: avrebbe aspettato lo svolgersi degli avvenimenti.

Alvin, senza perdere tempo, s’informò sul conto di Khedron; e Jeserac fu come al solito la sua principale fonte di informazione. Il vecchio tutore gli diede un accurato resoconto del colloquio avuto col Buffone, e aggiunse quel poco che sapeva delle abitudini di Khedron. Per quanto era possibile in una città come Diaspar, Khedron conduceva una vita ritiratissima: nessuno sapeva dove abitasse il Buffone e come vivesse. L’ultimo scherzo di Khedron, quello di paralizzare totalmente le strade mobili, si era rivelato abbastanza puerile. Quello scherzo risaliva a cinquant’anni prima. Un secolo prima aveva scatenato un mostruoso drago che si era messo a vagare per la città divorando tutte le sculture esistenti di un artista molto noto in quel periodo. L’artista stesso, giustificabilmente allarmato per quella particolare dieta del mostro, era andato a nascondersi, e non era uscito dal suo nascondiglio fino al giorno in cui il mostro non era scomparso nello stesso misterioso modo in cui aveva fatto la sua apparizione.

Una cosa era certa: Khedron doveva avere una profonda conoscenza delle macchine e delle forze che governavano la città, e sapeva farsi ubbidire da esse più di chiunque altro. Naturalmente doveva esistere un controllo superiore che impediva a Buffoni troppo ambiziosi di combinare danni irreparabili alla complessa struttura di Diaspar.

Alvin prese nota di questi fatti, ma non tentò di mettersi in contatto con Khedron. C’erano parecchie domande che avrebbe voluto fare al Buffone, ma un caparbio senso di indipendenza, qualità, forse, della sua natura unica, lo spingeva a scoprire da solo quanto più poteva. Si era imbarcato in un progetto che lo avrebbe probabilmente occupato per anni, ma, fintanto che sentiva di avvicinarsi alla meta, era felice.

Come l’esploratore che studia le vecchie carte di una terra sconosciuta, Alvin aveva cominciato l’esplorazione sistematica di Diaspar. Passò intere settimane a visitare le torri solitarie ai margini della città, nella speranza di trovare la via che portava al mondo esterno. Nel corso di quelle ispezioni scoprì almeno una dozzina di aperture che guardavano sul deserto. Le aperture, però, erano tutte sbarrate, e del resto lo strapiombo di oltre un chilometro era un ostacolo più che sufficiente.

Non trovò uscite, per quanto avesse esplorato almeno mille corridoi e diecimila celle vuote. Tutte queste costruzioni erano in perfetto stato, fatto che gli abitanti di Diaspar consideravano come parte del normale ordine delle cose. Ogni tanto incontrava qualche robot intento al suo giro di guardia, e non mancava mai di interrogarlo. Ma non apprese niente: quelle macchine non erano state progettate per rispondere al linguaggio e ai pensieri umani. Si rendevano conto della sua presenza, e si spostavano cortesemente da una parte per lasciarlo passare, ma rifiutavano di iniziare una qualsiasi conversazione.

C’erano volte in cui Alvin non vedeva altri esseri umani per giorni interi.

Quando aveva fame entrava in uno dei compartimenti alimentari e ordinava il pasto. Lì c’erano macchine miracolose che si risvegliavano, forse, dopo secoli di inoperosità. I dati inseriti nella loro memoria meccanica, richiamati in efficienza dai comandi, davano il via a tutta una serie di operazioni, così che un pasto preparato da un cuoco cento milioni di anni prima poteva ancora essere portato all’esistenza per deliziare il palato o semplicemente per soddisfare l’appetito.

La solitudine di quel mondo deserto, quella conchiglia vuota che circondava il cuore vivo della città, non riuscì a deprimerlo. Era abituato a stare solo, anche quando si trovava in mezzo a coloro che chiamava amici.

Quella appassionante esplorazione assorbiva tutte le sue energie e i suoi interessi, e per il momento aveva dimenticato il mistero della sua eredità, l’anomalia che lo rendeva diverso dai suoi coetanei.

Aveva esplorato meno di un centesimo della cinta esterna di Diaspar quando si rese conto che stava sprecando il suo tempo. Non era l’impazienza a suggerirgli quella conclusione, ma il più elementare buon senso.

Ci fosse stata qualche speranza, sarebbe stato pronto a continuare le ricerche, anche se avesse dovuto spenderci tutto il resto della sua vita. Quel che aveva visto era sufficiente per fargli capire che, se anche esisteva un’uscita dalla città, trovarla doveva essere un’impresa pazzesca. Se non voleva correre il rischio di sprecare qualche secolo in ricerche infruttuose, doveva decidersi a chiedere consiglio ai più anziani.

Jeserac gli aveva già detto di non conoscere alcuna via d’uscita e di dubitare che ne esistesse qualcuna. Aveva interrogato le macchine informative.