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«Bene» disse infine Alystra. «Che intenzioni hai?»

«Non so cosa farci» rispose lui, scontroso. «Il regolamento è stupido, ecco. E poi come posso tener presenti le regole mentre sto vivendo una saga? Mi comporto nel modo che più mi viene spontaneo. A te non sarebbe piaciuto vedere la montagna?»

Alystra sbarrò gli occhi con orrore.

«Ma questo avrebbe voluto dire portarci all’esterno» balbettò.

Alvin sapeva che era inutile protrarre quella discussione. Lì stava appunto la barriera che lo separava dalla gente del suo mondo, la barriera che lo avrebbe costretto a una vita di delusioni. Sia nella realtà che nel sogno, lui non desiderava altro che uscire all’esterno. Per chiunque altro, a Diaspar, l’«esterno» era un incubo che nessuno aveva il coraggio di affrontare. Evitavano perfino di parlarne: era qualcosa di immondo, di mostruoso. Nemmeno Jeserac, il suo tutore, aveva voluto spiegargli perché.

Alystra lo stava ancora fissando con occhi teneri e ansiosi. «Tu sei infelice, Alvin» sospirò. «Nessuno dovrebbe esserlo a Diaspar. Lasciami venire di persona a parlare con te.»

Poco galantemente, Alvin scosse la testa. Sapeva come sarebbe andata a finire, e in quel momento desiderava restare solo. Doppiamente delusa, Alystra si dileguò.

Tra dieci milioni di abitanti, pensava Alvin, non c’era nessuno con cui poter parlare; Eriston ed Etania gli volevano bene, ma ormai il periodo di custodia stava per scadere, e loro erano ben contenti di lasciarlo libero di scegliersi i propri divertimenti e la propria strada. Negli ultimi anni, a mano a mano che la sua differenza dal modello-standard si era fatta più evidente, aveva spesso avvertito un certo risentimento nei suoi genitori. Non ce l’avevano con lui, ce l’avevano con la sorte che aveva scelto proprio loro, tra tanti milioni di cittadini, per andare a riceverlo quando, vent’anni prima, era uscito dalla Sala di Creazione.

Vent’anni.Ricordava il suo primo istante di vita, le prime parole udite:

«Benvenuto, Alvin. Io sono Eriston, tuo padre designato. E questa è Etania, tua madre». Le parole non avevano significato niente in quel momento, ma il suo cervello le aveva registrate con precisione assoluta. E ricordava il modo in cui aveva contemplato le proprie membra. Era cresciuto di qualche centimetro, da allora, ma per il resto non era cambiato quasi per nulla. Era venuto al mondo già adulto, come aspetto, e sarebbe rimasto quasi immutato fino al momento di tornare al nulla, tra un migliaio d’anni.

Prima di questo ricordo c’era il vuoto. Un giorno, forse, questo vuoto si sarebbe riempito, ma era un pensiero troppo remoto per incidere sulle sue emozioni.

Riportò ancora una volta la mente al mistero della sua nascita.

Non pareva affatto strano ad Alvin d’essere stato creato, in un unico istante di tempo, dalle forze e dalle potenze che materializzavano tutti gli oggetti della vita quotidiana. Il mistero non era quello. L’enigma che lui non era mai stato in grado di risolvere e che nessuno avrebbe mai potuto spiegargli era costituito dalla sua unicità.

Unico.Spesso, ascoltando gli altri senza che se ne accorgessero, si era sentito definire con quell’aggettivo, che gli era suonato leggermente di malaugurio, come se quell’unicità rappresentasse una minaccia per sé e per tutti.

I genitori, il tutore, tutti gli amici avevano cercato di proteggerlo da quella verità, quasi volessero preservare l’innocenza della sua lunga infanzia. Quella finzione stava per cessare: tra pochi giorni sarebbe stato un cittadino di Diaspar, e nessuno avrebbe potuto nascondergli ciò che lui desiderava conoscere.

Perché, per esempio, non riusciva a immedesimarsi nelle saghe? Tra le migliaia di forme di ricreazione che la città offriva, le saghe erano la più popolare. Chi entrava in una saga non era uno spettatore passivo, come accadeva per i rozzi divertimenti di certe ere primitive di cui Alvin aveva sentito parlare. Nelle saghe si era partecipanti attivi, e si possedeva, o sembrava di possedere, una libera volontà. Gli avvenimenti e le scene che formavano il materiale vivo delle avventure poteva essere stato preparato molto tempo prima da artisti dimenticati, ma avevano sufficiente flessibilità da permettere ampie variazioni. Si entrava in un mondo immaginario con i propri amici, provando emozioni che Diaspar non offriva, e finché la finzione durava non era assolutamente possibile distinguere il sogno dalla realtà. Del resto, chi poteva essere certo che Diaspar stessa non fosse un sogno?

Nessuno avrebbe potuto vivere tutte le saghe che erano state concepite e registrate dal giorno in cui avevano fondato la città. Vi si trovavano tutte le emozioni, e vi giocavano tutte le sfumature. Alcune, le più popolari tra i giovanissimi, erano semplici drammi di avventura e scoperta. Altre erano di pura esplorazione degli stati psicologici. Altre ancora erano esercizi di logica o di matematica che potevano offrire grande soddisfazione alle menti più sofisticate.

Ma, per quanto le saghe sembrassero soddisfare i suoi compagni, lasciavano in Alvin un senso di insoddisfazione. Nonostante il loro colore, le avventure emozionanti, la varietà di soggetti e di ambienti, mancavano di qualcosa.

Le saghe, concluse Alvin, non approdavano a niente. Erano tracciate su schemi troppo esili. Non c’erano le ampie distese, gli sterminati paesaggi di cui la sua anima aveva bisogno. Soprattutto, non vi si coglieva nemmeno un barlume di quell’immensità che gli antichi uomini avevano esplorato, il vuoto luminoso tra le stelle e i pianeti. Gli artisti che avevano creato le saghe dovevano aver sofferto della stessa fobia che attanagliava tutti i cittadini di Diaspar. Anche le avventure più fantastiche avvenivano in ambienti circoscritti: caverne sotterranee, o piccole valli circondate da montagne che escludevano alla vista tutto il resto del mondo.

C’era un’unica spiegazione. In tempi remotissimi, forse prima ancora che Diaspar esistesse, era accaduto qualcosa che aveva distrutto l’ambizione e la curiosità dell’Uomo, scacciandolo dalle stelle e costringendolo a rifugiarsi nell’ultima città della Terra. L’uomo aveva rinunciato all’Universo ed era tornato al grembo artificiale di Diaspar. Quell’aspirazione invincibile, che un giorno l’aveva portato alla galassia e alle nebbiose isole che si estendevano oltre, si era spenta. Da innumerevoli cicli cosmici nessuna nave spaziale aveva più esplorato il Sistema solare; forse lassù, tra le stelle, i discendenti dell’Uomo stavano ancora costruendo Imperi, o trascinando soli nella rovina.

La Terra non lo sapeva, né si curava di saperlo. Ma Alvin sì.

2

La stanza era immersa nel buio, salvo un rettangolo su cui si agitavano le onde di colore dei sogni di Alvin. Parte della composizione lo lasciava soddisfatto. Si era innamorato del contorno delle montagne che uscivano dal mare. I pendii che salivano verso il cielo possedevano una loro forza e fierezza. Le aveva studiate a lungo, e le aveva registrate nella memoria del visualizzatore, dove si sarebbero conservate fino al momento in cui avesse messo a punto il resto dell’immagine. Qualcosa gli sfuggiva, anche se non sapeva cosa fosse. Aveva provato e riprovato a riempire gli spazi vuoti, e gli strumenti avevano letto i suoi pensieri per proiettarli in immagine sulla parete. Ma non erano ciò che lui voleva. Le linee erano confuse e incerte, i colori troppo densi e sporchi. Se l’artista non sapeva cosa dipingere, anche il più miracoloso dei pennelli non avrebbe potuto portare a termine il quadro.

Alvin cancellò le parti che lo lasciavano insoddisfatto e ricominciò a lavorare sui tre quarti di rettangolo vuoto che aveva cercato di riempire di bellezza. In un improvviso impulso raddoppiò la grandezza dell’immagine esistente e la spostò al centro del rettangolo. No, era un modo sciocco di risolvere la situazione. La composizione risultava sbilanciata e, peggio ancora, il cambio della scala aveva rivelato i difetti di tutta la costruzione: la mancanza di sicurezza nei tratti che poco prima gli sembravano disegnati alla perfezione. Avrebbe dovuto ricominciare da capo.