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Qua e là i giganti della foresta avevano cercato di elevarsi di qualche metro sopra le piante circostanti, e queste avevano formato una breve alleanza per distruggere il vantaggio conquistato dalle altre. Certo era stata una guerra silenziosa, combattuta troppo lentamente per essere seguita a occhio, ma si aveva la netta impressione di un conflitto, spietato, implacabile.

La pianura, al confronto, sembrava tranquilla e monotona. Si stendeva piatta fino all’orizzonte, e sembrava coperta da una sottile erba rigida. Per quanto fossero scesi a pochi metri dal suolo non riuscirono a scorgere il minimo segno di vita animale, cosa che Hilvar trovò sorprendente. Forse, pensò, gli animali si erano nascosti sotto terra, impauriti dal loro arrivo.

Volteggiarono sul piano a quota bassissima. Alvin tentava di convincere Hilvar che non c’era alcun pericolo ad aprire il compartimento stagno, mentre Hilvar ribatteva pazientemente parlando di batteri, funghi, virus e microbi, concetti che Alvin stentava ad afferrare. La discussione si protraeva da qualche minuto quando accadde un fatto molto strano. Lo schermo visivo, che un attimo prima rifletteva la foresta, si fece opaco.

«L’hai spento tu?» chiese Hilvar.

«No» rispose Alvin, e subito un brivido gli corse per la schiena all’idea dell’unica spiegazione plausibile. «Forse l’hai spento tu?» chiese al robot.

«No.»

Con un respiro di sollievo, Alvin scacciò il sospetto che il robot avesse agito di propria volontà. Non gli sarebbe piaciuto dover affrontare l’ammutinamento di un meccanismo.

«Allora perché lo schermo è scuro?» chiese.

«I ricevitori sono stati coperti.»

«Non capisco» disse Alvin, dimenticando per un attimo che il robot poteva reagire solo a ordini o domande precise. Ma lo ricordò in fretta, e chiese: «Cosa ha coperto i ricevitori?»

«Non lo so.»

La laconicità dei robot poteva essere a volte più esasperante della loquacità degli umani. Prima che Alvin potesse formulare un’altra domanda, Hilvar l’interruppe.

«Digli di far alzare la nave… adagio» disse. Nella sua voce c’era una nota di urgenza.

Alvin trasmise l’ordine. Come sempre, non ci fu alcuna sensazione di movimento, ma qualche istante dopo l’immagine cominciò a riformarsi sullo schermo; per un momento restò offuscata e contorta, ma mostrò quanto bastava per mettere fine alla discussione sull’atterraggio.

La pianura non era più piana. Proprio sotto di loro si era formata una grande gibbosità, che rivelava uno squarcio nel punto da cui la nave era riuscita a liberarsi. Enormi pseudopodi si agitavano al di sopra dell’apertura, cercando di ricatturare la preda sfuggita. Alvin, che fissava inorridito e affascinato, colse la visione di un pulsante orifizio scarlatto, frangiato di tentacoli che battevano all’unisono, trascinando tutto ciò che potevano afferrare dentro la sacca spalancata.

Rimasto privo della vittima, il mostro affondò lentamente nel terreno, e fu allora che Alvin comprese. La pianura là sotto non era che un sottile strato di scorie alla superficie di un mare stagnante.

«Cos’era quella cosa?» balbettò.

«Dovrei scendere e studiarla per poterti dire cos’è» replicò calmo Hilvar.

«Può trattarsi di una specie di animale primitivo, forse parente del nostro amico di Shalmirane. Di sicuro non è intelligente, altrimenti non gli sarebbe venuta l’idea di mangiarsi una nave spaziale.»

Alvin si sentì scosso, anche sapendo di non aver corso un vero pericolo.

E si domandò cos’altro vivesse tra quegli innocenti fili d’erba.

«Ci sarebbe da trascorrere parecchio tempo su questo pianeta» disse Hilvar, affascinato da ciò che aveva appena visto. «L’evoluzione deve aver prodotto fenomeni molto interessanti. Non solo l’evoluzione, del resto, ma anche l’involuzione, perché le forme superiori di vita sono regredite da quando il pianeta è stato abbandonato. A quest’ora dev’essersi stabilito un equilibrio e… Come, andiamo già via?» terminò, dispiaciuto, vedendo che il pianeta si allontanava sotto di loro.

«E subito, anche. Ho visto un mondo senza vita e un altro dove ce n’è troppa. Non saprei dire quale sia il peggiore.»

A duemila metri sopra la pianura, il pianeta diede loro l’ultima sorpresa.

Incontrarono una flottiglia di flaccidi palloni trasportati dal vento. Da ogni superficie semi-trasparente penzolavano masse di viticci che formavano una specie di foresta. Evidentemente alcune piante, nello sforzo di sfuggire al feroce conflitto che si svolgeva sulla superficie, avevano imparato a conquistare l’aria. Con un miracolo di adattamento avevano scoperto come produrre idrogeno e accumularlo nelle radici, in modo da sollevarsi nell’aria e vivere nella tranquilla pace dell’atmosfera.

Tuttavia non si poteva dire che avessero trovato la sicurezza. I loro rami e le foglie erano infestati da un’intera fauna di animali a forma di ragno, costretti a trascorrere la vita lontani dalla superficie del pianeta e a continuare nell’aria l’eterna battaglia per l’esistenza. Presumibilmente, di tanto in tanto, dovevano aver bisogno di qualche contatto con il suolo. Alvin vide uno dei palloni scoppiare all’improvviso, distendere l’involucro a forma di rudimentale paracadute, e cadere a terra. Si domandò se era stata una disgrazia, o se faceva parte del ciclo di vita delle strane entità.

Hilvar dormì per tutta la durata del viaggio di avvicinamento al nuovo pianeta. Il robot non ne seppe spiegare la ragione ma, ora che si trovavano all’interno del sistema, l’astronave viaggiò a una velocità assai ridotta in raffronto a quella con cui avevano attraversato l’universo. Ci vollero quasi due ore per raggiungere il mondo scelto come terza stazione, e Alvin fu alquanto sorpreso che quel semplice viaggio interplanetario fosse durato così a lungo.

Svegliò Hilvar nel momento in cui entravano nell’atmosfera.

«Che ne pensi diquesto?» domandò, indicando lo schermo.

Sotto di loro si stendeva un paesaggio grigio e nero, che non mostrava alcuna traccia di vegetazione e sembrava assolutamente deserto. C’erano però segni indiretti di vita: basse colline e vallate erano punteggiate da calotte semisferiche, disposte secondo schemi complessi e simmetrici.

Alvin e Hilvar, che dopo l’ultima avventura si erano fatti molto cauti, mandarono il robot in esplorazione. Attraverso i suoi occhi poterono esaminare una delle calotte dalla superficie rotonda e liscia.

Non si scorgeva alcuna apertura d’ingresso, né era possibile capire a quale scopo fosse destinata la strana struttura. Era molto larga, alta circa trenta metri. Se era un edificio, mancava però di porte e di finestre.

Alvin ordinò al robot di avvicinarsi e toccare la cupola. Con sua immensa meraviglia, la macchina si rifiutò di obbedirgli. Un ammutinamento, o così sembrava.

«Perché non vuoi fare quel che ti dico?» chiese Alvin, superato il primo momento di stupore.

«È proibito.»

«Proibito da chi?»

«Non so.»

«Allora come mai… No, cancella. L’ordine è registrato dentro di te?»

«No.»

Questo sembrava eliminare una possibilità: quella che i costruttori delle cupole fossero la razza che aveva fabbricato i robot e che avessero incluso nelle istruzioni originali il divieto di avvicinarsi.

«Quando hai ricevuto quell’ordine?»

«Quando ho toccato terra.»

Alvin si voltò a guardare Hilvar. Una luce di speranza gli brillava negli occhi. «C’è intelligenza, qui? Riesci a sentirla?»

«No. Questo pianeta è morto come il primo che abbiamo visitato.»

«Vado a raggiungere il robot. Se qualcosa ha comunicato con lui, può comunicare anche con me.»

Hilvar non si oppose, benché non avesse un’aria troppo convinta. Atterrarono a una trentina di metri dalla cupola, poco lontano dal robot che li aspettava, e aprirono il compartimento stagno.