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«O gli sciacalli» aggiunse Mando, impaurito.

Steve si mise a ridere. «Ragazzi, siamo sopra una miniera d’argento, tutto qua.» Si piegò sui talloni per leggere una lapide. Troppo buio: saltellò a quella vicina. «Guardate questa quant’è grande» disse. Vi si accostò e con l’aiuto delle dita lesse l’iscrizione. «Abbiamo qui un certo signor John Appleby. 1904-1984. Proprio una gran bella lapide, sarà morto al momento giusto… forse abitava in una delle grandi case lungo la strada… ricco di sicuro, giusto?»

«Dovrebbe esserci un’iscrizione molto lunga, sulla pietra» dissi. «La prova che era ricco.»

«C’è, infatti. Padre amato, mi sembra, e altra robaccia. Proviamo lui?»

Per un po’ nessuno rispose. Poi Gab disse: «Lui vale un altro.»

«Di più» replicò Steve. Lasciò cadere a terra un badile e sollevò l’altro. «Togliamo di mezzo l’erba.» Conficcando il badile nel terreno, tracciò una linea. Gabby, Del, Mando e io restammo a guardarlo. Lui alzò gli occhi. «E allora? Volete o no un po’ d’argento?»

Cominciai a togliere l’erba; volevo farlo prima, ma mi rendeva nervoso. Messo a nudo il terriccio, iniziammo a scavare sul serio. Quando fummo nella buca fino alle ginocchia, passammo i badili a Gabby e a Del, ansimando un poco. Sudavo a profusione nella nebbia e mi raffreddavo in fretta. Zolle d’argilla bagnata mi si spiaccicavano sotto i piedi. Quasi subito Gabby disse: «Non si vede niente qua sotto. Meglio accendere la lanterna.» Mando tirò fuori il battifuoco e si dedicò allo stoppino.

La lanterna emise una luce giallastra, spettrale, che mi abbagliò e praticamente servì solo ad aumentare le ombre. Mi allontanai di qualche passo, per non disabituare gli occhi all’oscurità e intanto sgranchirmi. Avevo le braccia sporche di terriccio, mi sentivo più nervoso che mai. Da quella distanza, la fiamma della lanterna era più grossa e debole. I miei compagni erano sagome nere; i due con il badile erano sotto fino alla cintola. Mi trovai davanti alla fossa di una tomba lasciata aperta; sobbalzai e tornai in fretta nel cerchio di luce della lanterna, con il fiato grosso.

Gabby, che superava appena con la testa il mucchio di terriccio già estratto, mi guardò. «Li seppellivano in profondità» disse, con voce bizzarra. Lanciò fuori un’altra palata di terra.

«Forse questo qui è già stato dissepolto» suggerì Del, guardando giù nel buco, dal quale Mando gettava fuori una manciata di terriccio a ogni colpo di badile.

«Certo» lo prese in giro Steve. «O forse l’hanno sepolto vivo ed è strisciato fuori da solo.»

«Mi fanno male le mani» disse Mando. Il manico del badile era un ramo e le sue mani non erano molto robuste.

«“Mi fanno male le mani”» piagnucolò Steve, facendogli il verso. «Allora vieni fuori di lì.»

Mando si arrampicò fuori. Steve prese il suo posto e si mise a scavare con forza; il terriccio volava nella nebbia.

Le stelle non erano ancora spuntate. Sembrava tardi, avevo freddo e una fame da lupi. La nebbia s’infittiva; la zona intorno a noi sembrava chiara, ma presto la nebbia scese anche lì, finché non fu l’unica cosa visibile per metri di distanza: una muraglia bianca. Eravamo dentro una bolla di bianco; al limitare della bolla c’erano delle sagome: lunghe braccia, teste dagli occhi ammiccanti, paia di zampe veloci…

Tum. Il badile aveva urtato qualcosa. Steve raddrizzò la schiena, appoggiato al manico, guardò in basso. Provò a dare qualche colpo, tum tum tum. «Ci siamo» dichiarò a voce alta. Riprese a spalare terriccio. Dopo un poco, disse: «Spostate la lanterna da questa parte.» Mando la tenne sospesa sopra la fossa. La luce mi mostrò il viso dei miei compagni, sudato, striato di sporco, nel quale risaltava il bianco degli occhi. Anch’io avevo le braccia sporche di terra fino al gomito.

Ma fu solo l’inizio. Steve prese a imprecare. Scoprimmo che la fossa appena scavata, un buon metro e mezzo per novanta, aveva messo in luce solo un’estremità della bara. «Quei maledetti l’hanno sistemata proprio sotto la lapide!» Era ancora solidamente imprigionata nell’argilla.

Seguì una discussione. Il piano finale, di Steve, fu di grattare via il terriccio dal coperchio e dai fianchi della bara, in modo da tirarla nella fossa già scavata. Grattammo la terra fin dove arrivavano le braccia.

«Henry» disse Steve «finora sei quello che ha scavato meno di tutti. Sei alto e magro, per cui cerca d’infilarti qui dentro e spingere il terriccio verso di noi.»

Protestai. Ma gli altri convennero che ero proprio adatto alla bisogna e presto mi trovai bocconi sul coperchio della bara, con l’argilla sgocciolante a qualche centimetro dalla schiena e dal sedere, a scavare con le dita e a spingere il terriccio dietro di me. Solo una serie continua d’imprecazioni riusciva a non farmi pensare a quel che giaceva sotto il legno su cui ero disteso, esattamente parallelo a me. Gli altri mi gridavano incoraggiamenti, come: «Guarda che noi adesso ce ne torniamo a casa», oppure: «Oh, cos’è che s’avvicina?», o anche: «Non hai sentito vibrare la bara, un attimo fa?» Ma io non ci trovavo niente da ridere. Finalmente arrivai con le dita al bordo estremo della bara; strisciai fuori, mi grattai di dosso il fango, brontolai di disgusto e paura.

«Henry, sapevo di poter contare sempre su di te» disse Steve saltando nella fossa. Allora toccò a lui e a Del dare strattoni alla bara e brontolare; dopo un ultimo sforzo, la bara scivolò nella fossa, mentre Steve e Del vi si lasciavano cadere a lato.

La bara era di legno nero, con un velo verdastro che brillava come una coda di pavone alla luce della lanterna. Gabby tolse il terriccio dalle maniglie e la sporcizia appiccicosa dai listelli di rinforzo intorno al coperchio: tutto argento.

«Guardate che maniglie» disse Del, in tono reverenziale. Ce n’erano sei, tre per lato, lucide e brillanti come se fossero state seppellite il giorno prima e non sessant’anni fa. Notai nel legno lo sfregio lasciato dal colpo di badile di Steve.

«Ragazzi» disse Mando «guardate quanto argento!»

Guardammo. Immaginai tutti noi, al primo raduno di scambio, addobbati come sciacalli in giacca di pelliccia e stivali e cappello piumato, che andavamo in giro rischiando di perdere i calzoni per il peso di quei pezzi d’argento. Fra grida di gioia, ci scambiammo manate sulle spalle. Poi ci fermammo a guardare ancora, esultammo di nuovo. Gabby strofinò con il pollice una maniglia; arricciò il naso.

«Ehi» disse. «Uh…» Afferrò il badile appoggiato contro il fianco della bara e diede un colpetto alla maniglia. Thud. Un suono sordo, non di metallo contro metallo. E il colpo lasciò il segno. Gabby diede un’occhiata a Del e a Steve, si piegò sui talloni a guardare più da vicino. Colpì di nuovo la maniglia. Thud thud thud. Vi passò sopra la mano.

«Non è argento» disse. «Si è staccata. È una specie… una specie di plastica, credo.»

«Porca puttana» imprecò Steve. Saltò nella fossa e afferrò il badile; colpì i listelli del coperchio, li tagliò in due.

Be’, noi fissammo di nuovo la cassa, ma stavolta nessuno gridò di gioia.

«Quel maledetto bugiardo di un vecchio» disse Steve. Buttò via il badile. «Ha detto che ogni funerale costava una fortuna. Ha detto…» S’interruppe; lo sapevamo tutti. «Ha detto che c’era argento.»

Lui, Gabby e Del erano in piedi nella fossa. Mando posò la lanterna sulla pietra tombale. «Forse anche la lapide è di plastica» disse, cercando di alleggerire un poco il malumore generale.

Steve si accigliò. «Gli prendiamo l’anello?»

«No!» esclamò subito Mando. Ridemmo tutti.

«Prendiamo l’anello e la fibbia e le otturazioni d’oro?» ripeté Steve, con voce roca, lanciando a Mando un’occhiata di sbieco. Mando scosse con furia la testa; sembrava sul punto di piangere. Del e io ci mettemmo a ridere; Gabby uscì dallo scavo, con aria disgustata. Steve piegò la testa e rise, una risata breve e rauca. Risalì anche lui. «Prima seppelliamo questo poveraccio, poi andiamo a seppellire il vecchio.»