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Miss Crouch, con un sorriso privo d’interesse, lo fece entrare immediatamente. Orr avrebbe detto che gli uffici degli psichiatri, come le tane di coniglio, avevano sempre due porte: una d’ingresso e una d’uscita, ma quello di Haber aveva una porta sola. Però Orr dubitava che i pazienti corressero il rischio di scontrarsi mentre entravano e uscivano da lì. Alla Clinica Universitaria gli avevano detto che il dottor Haber teneva soltanto un numero limitato di pazienti, dato che, essenzialmente, era un ricercatore. Questo gli aveva fatto pensare a una persona affermata e un po’ ritirata, e il comportamento gioviale e sicuro del medico gli aveva confermato tale convinzione. Ma oggi, meno nervoso, si accorse di vari particolari che non aveva notato. L’ufficio non dava l’impressione cuoio e acciaio cromato caratteristica del successo finanziario, né l’impressione stracci e provette del disinteresse scientifico; il rivestimento delle poltrone e del divano era in vinile, la scrivania era un tavolo metallico con rivestitura in laminato plastico imitazione legno. Nulla, lì dentro, era genuino. Il dottor Haber, grosso, capigliatura folta e rossiccia, denti bianchi, esclamò con un gran vocione: — Buon giorno!

La cordialità non era fasulla, ma era esagerata. Il calore umano, l’espansività di quell’uomo erano veri, ma anch’essi avevano un rivestimento in laminato plastico di manierismo professionale, erano distorti dall’uso non spontaneo che il medico faceva della propria persona. Orr avvertì in lui un desiderio di farsi apprezzare e una bramosia di rendersi utile; il dottore, si disse, non era veramente certo che esistessero altre persone all’infuori di lui, e, aiutandole, voleva dimostrare la loro esistenza. Gridava «Buon giorno!» a voce così alta perché non era mai sicuro di ricevere una risposta. Orr desiderava scambiare qualche frase in tono amichevole, ma non gli pareva che qualcosa di personale fosse adatto; disse: — Pare che l’Afghanistan voglia entrare in guerra.

— Mmm, i giornali continuano a parlarne dal mese di agosto. — Avrebbe dovuto immaginarselo: il dottore era meglio informato di lui, sugli affari internazionali; Orr, di solito, era informato a metà, e le sue conoscenze erano vecchie di tre settimane. — Non credo che la cosa preoccupi gli Alleati — intanto continuava a dire Haber, — a meno che non trascini il Pakistan dalla parte iraniana. In questo caso l’India dovrà dare all’Isregitto qualcosa di più del sostegno verbale che dà loro attualmente. — Era la denominazione data dai commentatori politici alla recente alleanza tra Israele e Nuova Repubblica Araba. — Secondo me, il discorso fatto a Delhi da Gupta mostra che si sta preparando a questa eventualità.

— Si allarga — disse Orr, che si sentiva scoraggiato e fuori posto. — La guerra, voglio dire.

— Perché, la preoccupa?

— Lei no?

— Irrilevante — disse il dottore, sorridendo con quel suo sorriso largo e irsuto, animalesco: una sorta di grande orso totemico; ma era ancora allarmato per la seduta del giorno precedente.

— Be’, io me ne preoccupo. — Haber non si era guadagnato quella risposta, ma chi interroga non può rifiutarsi di rispondere assumendo una posizione di obiettività, come se le risposte fossero degli oggetti. Orr tuttavia non espresse a voce queste considerazioni; era nelle mani del medico, e certo lui sapeva il fatto suo.

Orr aveva la tendenza a dare per scontato che gli altri sapessero sempre il fatto loro: forse perché egli, di solito, dava per scontato di non sapere il proprio.

— Dormito bene? — chiese Haber, accomodandosi a sedere sotto lo zoccolo posteriore sinistro di Tammanny Hall.

— Benissimo, grazie.

— Ha voglia di fare un’altra visita al Palazzo dei Sogni? — Lo stava sorvegliando attentamente.

— Certo, sono qui per questo, credo.

Vide Haber alzarsi e avvicinarsi a lui aggirando la scrivania, vide la grossa mano che si accostava al suo collo, e poi più nulla.

— … George…

Il suo nome. Chi lo chiamava? Non conosceva la voce. Terra asciutta, aria asciutta, il fragore di una voce estranea nelle sue orecchie. La luce del giorno, e nessuna direzione. Nessun modo di ritornare indietro. Si destò.

La stanza quasi familiare; l’uomo grosso, anch’egli quasi familiare, con la voluminosa chioma rossiccia, la barba tra il rosso e il castano, il sorriso chiaro e gli occhi scuri e opachi. — Sull’EEG pareva un sogno breve, ma assai vivace — disse la voce profonda. — Vediamo di cosa si trattava. Prima si racconta il sogno, più viva e completa è la descrizione.

Orr si rizzò a sedere: si sentiva un po’ stordito. Era sul divano, ma come ci era arrivato? — Ecco. Non era molto lungo. Di nuovo il cavallo. Me lo ha detto lei, di sognare di nuovo il cavallo, mentre ero sotto ipnosi?

Haber scosse il capo, in un modo che non indicava né sì né no; non disse nulla.

— Ecco, questa era una stalla. Questa stanza. C’era della paglia, una mangiatoia, un forcone nell’angolo e così via. Il cavallo era nella stalla. E…

Il silenzio pieno di attesa di Haber non permetteva evasioni.

— E ha fatto questa enorme pila di sterco. Marrone, fumante. Sterco equino. Il mucchio assomigliava un po’ a Monte Hood, con quella piccola gobba sulla parte nord e tutto il resto. Copriva tutto il tappeto, e stava per cascarmi addosso, così mi sono detto: «Ma no, è soltanto la fotografia della montagna.» Poi credo di essermi svegliato.

Orr alzò gli occhi e guardò dietro il dottor Haber, sulla parete alle sue spalle, dove c’era una fotografia col panorama di Monte Hood.

Era uno spettacolo sereno in un modo silenzioso, con una certa pretesa artistica: il cielo grigio, la montagna color marrone chiaro e un po’ rossastra, con qualche traccia di neve accanto alla cima e il primo piano indistinto, formato da cime di alberi.

Il dottore non stava guardando la riproduzione. Stava osservando Orr con quel suo sguardo cupo e acuto. Rise quando Orr terminò: una risata né lunga né forte, forse un po’ eccitata.

— Stiamo approdando a qualcosa, George!

— A cosa?

Orr si sentiva tutto sgualcito e molto sciocco, seduto sul divano, ancora stordito dal sonno, dopo avere dormito lì (probabilmente a bocca aperta e russando), impotente, mentre Haber osservava le giravolte e le impennate del suo cervello e gli ordinava cosa sognare. Si sentiva messo in mostra, usato. E a quale scopo?

Era chiaro che il dottore non aveva alcun ricordo della fotografia del cavallo, e neppure della loro conversazione sull’argomento; era già nel nuovo presente, e tutti i suoi ricordi ne facevano parte. Quindi non avrebbe potuto dargli nessun aiuto. Adesso stava camminando su e giù per l’ufficio, e parlava più forte del solito. — Benissimo! Lei: (a) può sognare, e sogna, a comando; e segue le suggestioni ipnotiche; (b) risponde splendidamente all’Aumentare. Perciò possiamo lavorare insieme, in modo veloce ed efficiente, senza narcosi. Io preferisco sempre lavorare senza farmaci. Ciò che il cervello compie da sé è infinitamente più affascinante e complesso delle risposte che può presentare con una stimolazione chimica; è per questo che ho inventato l’Aumentore, per fornire al cervello un sistema di auto-stimolazione. Le risorse creative e terapeutiche del cervello… sia nella veglia che nel sonno e nel sogno… sono praticamente infinite. Si tratta di trovare le chiavi adatte alle serrature. Già soltanto il sogno ha delle potenzialità che non ci sogniamo neppure! — E rise con quella sua immensa risata: non era la prima volta che faceva questa battuta. Orr sorrise un po’ a disagio, perché Haber aveva toccato un punto dolente. — Ora sono sicuro che la terapia più adatta a lei sia in questa direzione: usare i suoi sogni, invece di sfuggirli ed evitarli. Affrontare le sue paure, e, col mio aiuto, risolverle. Lei ha paura della sua mente, George. E si tratta di una paura con cui non si può vivere. Ma lei non ha bisogno di farlo. Lei non ha visto l’aiuto che la sua mente può darle, i modi con cui può usarla, impiegarla creativamente. Ciò che le occorre non è nascondersi ai suoi poteri mentali, reprimerli, bensì lasciarli agire. E questo possiamo farlo insieme. Ora, la cosa non le pare giusta, non le pare la giusta cosa da fare?