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Ed Greenwood

La figlia di Elminster

Sedit qui timuit ne non succederet

(Si plachi colui che teme di non riuscire)

Questo romanzo è dedicato a Brenna

Una figlia perduta, non da me… ma da tutti noi

Nihil amori iniuriam est

(Nessun danno può essere recato all’amore)

Un saluto e i miei ringraziamenti ai signori del sapere che hanno imparato ad amare Cormyr, per il lavoro che hanno svolto su di esso, inclusi Eric Boyd, Grant Christie, Tom Costa, George Krashos e Bryon Wischstadt… oltre naturalmente a Troy Denning, Jeff Grubb, Eric Haddock e Steven Schend.

Figli, figli… sempre ti vanti di ciò che i tuoi figli faranno, con il loro ingegno acuto e le loro nuove spade tanto affilate!

Ricorda, o Principe, che hai anche delle figlie! Tu non sei il primo uomo, nobile o plebeo, che tenda a dimenticare le figlie che ha generato, ma ricorda questa perla di saggezza, o signore (non mia, ma scaturita dalla penna di un signore del sapere che era già polvere prima che i draghi fossero scacciati da questa terra): i saggi che sfogliano le pagine della storia hanno una parola con cui contrassegnare gli uomini che ignorano le loro figlie… e quella parola è «stolti».

Astramas Revendimar
Saggio di Corte di Cormyr
Lettere a un uomo che sarà re
Anno della Fiamma Sorridente

1.

Assassinio a un incontro di mercanti

Un mago, un mercante, un lord fra i mercanti… qui non vedo penuria di stolti.

Battuta del personaggio di Tursi Lingua Tagliente
Scena Prima della commedia Sacchi di vento a Waterdeep
di Tholdomor «il Saggio» Rammarask
Rappresentata per la prima volta nell’Anno dell’Arpa

Era una notte di luna, con l’argenteo Occhio di Selûne che scivolava nel cielo fra brandelli di nubi lucenti che correvano rapidi sopra le guglie orgogliose di Waterdeep. I maghi nelle loro torri e le guardie sui bastioni sollevarono lo sguardo e rabbrividirono, mentre ciascuno di essi pensava a quanto lui stesso apparisse piccolo e insignificante di fronte al veloce e indifferente fuoco degli dei.

Molto meno numerosi furono invece i mercanti che si preoccuparono di sollevare lo sguardo dalle monete e dalle merci… o da più soffici tentazioni… che avevano fra le mani a quell’ora, perché così sono fatti i mercanti. Centinaia di essi stavano russando nel loro letto, sfiniti dalle fatiche della giornata, ma molti altri erano ancora desti e stavano abbracciando qualcosa, anche se la maggior parte di essi aveva le mani strette soltanto intorno a un boccale che si andava rapidamente svuotando.

Non c’erano però boccali, abbracci o più soffici tentazioni in una particolare stanza di un piano rialzato, dalle finestre sprangate che si affacciavano sulla Via Jembril, nel Rione dei Commerci; invece, quella stanza conteneva soltanto il minimo di arredi indispensabile… un tavolo e sei sedie dallo schienale rigido… e un gruppo di uomini avvolto da un’atmosfera glaciale.

Sei mercanti occupavano quelle sedie in quella gelida notte di inizio primavera dell’Anno dei Draghi Ribelli, e tutti e sei sedevano impassibili, fissandosi a vicenda. Gli sguardi scintillanti d’ira di cinque di essi lasciavano supporre che la salute del sesto uomo, che sedeva isolato a capo del tavolo, non avrebbe continuato a fiorire per più di pochi altri istanti se non fosse stato per la presenza delle due impassibili guardie del corpo, che erano ferme con aria guardinga accanto alla sedia del loro padrone, una balestra carica e pronta all’uso in una mano e l’altra mano appoggiata sull’impugnatura della spada.

Poi il sesto uomo parlò, con voce lenta e in tono tagliente.

Fuori, nella notte, un’ombra si mosse, e un’invisibile testimone della riunione dei mercanti si protese maggiormente verso l’unica fessura presente nelle imposte delle finestre del primo piano. Tenendosi appesa a testa in giù alla statua di un’arpia di pietra che decorava il tetto nel punto più vicino all’imposta, l’ombra mise a repentaglio il proprio equilibrio quanto più le era possibile e si sforzò di sentire ciò che veniva detto, mentre le sue braccia snelle cominciavano già a tremare per lo sforzo di impedirle di precipitare sull’acciottolato scuro della strada sottostante.

«Signori, non vi rimangono proprio altre scuse da accampare», sogghignò l’individuo che sedeva in disparte rispetto agli altri. «Avrò il mio denaro questa notte… oppure mi consegnerete un atto di cessione delle vostre botteghe».

«Ma…» sbottò uno degli altri uomini, troncando però sul nascere ciò che era stato sul punto di dire, qualsiasi cosa fosse, e abbassando con aria impotente lo sguardo sulla spoglia superficie del tavolo che aveva davanti, il volto incupito dall’ira.

«Dunque ci vuoi rovinare, Caethur?» chiese il mercante che gli sedeva accanto, la voce scossa da un tremito. «Preferisci lasciarci in mezzo a una strada invece di dissanguarci per un’altra stagione? Perché, considerato che potresti chiederci degli interessi più elevati, concederci altro tempo e tenerci indebitati in eterno, costretti a pagarti per il resto della nostra vita e a cederti più denaro di quanto valgano le nostre botteghe?»

Caethur, che si sentiva senza dubbio protetto dalla presenza minacciosa delle due guardie del corpo che aveva alle spalle, si protese in avanti con un sorriso sempre più ampio… e tutt’altro che gradevole… dipinto sul volto.

«Sì», ribatté in tono di trionfo, poi si appoggiò allo schienale della sedia, congiunse le mani e appoggiò il mento alla punta delle dita, mormorando: «Hammuras, rovinarti mi darà un enorme piacere. Lo stesso vale per te, Nael, e soprattutto per te, Kamburan».

Immobile, continuando a sorridere, spostò poi lo sguardo sugli altri due mercanti seduti, e aggiunse con un sospiro:

«Peraltro, quasi mi addolora infliggere la stessa sorte anche a voi due gentiluomini, al punto che mi potrei sentire addirittura incline a concedervi quell’ulteriore stagione di proroga di cui parlava Hammuras se, per esempio, accadesse qualcosa che mettesse a tacere per sempre la lingua troppo tagliente di Kamburan. Io…»

Uno degli ultimi due mercanti da lui interpellati calò con violenza la mano sul piano del tavolo, interrompendolo.

«No, Caethur, non ci spingerai ad attaccarci a vicenda mentre tu gongoli in disparte. Affonderemo o ci salveremo insieme.»

Accanto a lui, l’altro mercante annuì con aria furente.

Caethur rivolse a entrambi un accenno di sorriso, agitando le dita coperte di anelli in modo tale che le fasce d’oro tempestate di gemme che le adornavano scintillassero alla luce della lampada come altrettanti bicchieri di quel nuovo vino che i nobili di Waterdeep avevano battezzato «stelle scintillanti».

«Benissimo, signori», ribatté in tono leggero, «allora siamo arrivati al momento in cui le parole devono cedere il posto ai fatti, in un modo o nell’altro. Kamburan, perché non cominci tu?».

Con riluttanza, il mercante dalla barba bianca infilò una mano nella tunica di seta color fiamma ed estrasse… con mosse lente e caute, perché due balestre gli si erano puntate contro a titolo di ammonimento… un cofanetto di legno lucido grande appena più del palmo della sua mano. In silenzio, lo aprì in modo da mettere in mostra agli occhi di tutti il fuoco freddo della fila di gemme contenuta all’interno: sette beljuril, verdi come il mare e scintillanti per le scariche di fuoco che già si stavano accumulando al loro interno.

Posato con delicatezza il cofanetto sul tavolo, Kamburan lo spinse verso Caethur, ma esso si arrestò prima di raggiungere l’usuraio.