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In risposta a un cenno di Caethur, una delle guardie del corpo si fece avanti con disinvoltura e chiuse il cofanetto, facendolo scivolare in avanti fino al suo padrone, che però non accennò a toccarlo.

«Saremmo dovuti andare da Mirt», borbottò Hammuras.

«La vita è piena di “avremmo dovuto”, vero, Hammuras?» ribatté Caethur, scoccando al mercante di spezie un sorriso degno di uno squalo. «Io avrei dovuto scegliere di trattare di affari con commercianti più astuti e operosi, e in questo modo non mi sarei mai trovato nella spiacevole situazione di dover recuperare il possibile dal naufragio di quelle che sarebbero dovute essere cinque fiorenti attività commerciali».

«Questo non è vero!» ringhiò Nael. «Sai bene quanto noi che questi sono stati tempi difficili! I mostri marini hanno mandato a monte una stagione di spedizioni per mare, poi ci sono state le guerre in Amn e nel Tethyr, e la conseguente cessazione dei commerci con quelle terre…»

«Non è forse vero che ogni mercante di Waterdeep si è trovato a fronteggiare queste stesse difficoltà?» chiese in tono mite Caethur, allargando le mani e inarcando un sopracciglio. «E tuttavia… mirate… non sono tutti seduti qui, intorno a questo tavolo. Ci siete soltanto voi cinque».

Il suo sguardo si spostò poi su Hammuras, e la sua mano si protese in un gesto invitante.

Cupo in volto, il mercante di spezie esibì a sua volta un cofanetto, fece vedere i rubini in esso racchiusi e lo spinse lungo il tavolo.

Questa volta il cofanetto si fermò a portata della mano dell’usuraio, ma questi di nuovo non accennò a prenderlo e fissò invece Nael con aria piena di aspettativa.

Il mercante rimase immobile, pallido come il marmo.

«Allora?» lo incitò a bassa voce Caethur, nel silenzio che si era fatto di colpo molto profondo e tuttavia vibrante come la corda di un arco teso.

Nael deglutì a fatica, sollevò il mento, deglutì ancora, poi disse:

«Non ho qui con me né pietre preziose né l’atto di cessione della mia attività, ma…»

Senza attendere nessun segnale, una delle guardie del corpo attivò la balestra, e l’occhio sinistro di Aldurl Nael si trasformò di colpo in un sanguinante ammasso di legno e piume. Il mercante di ottone barcollò sulla sedia, con la testa spinta all’indietro e la bocca spalancata, poi rimase immobile, con il sangue che gli colava a rivoli dalla bocca, sul pavimento.

«… ma è davvero una sfortuna», affermò Caethur, sempre in tono mite, concludendo la frase al posto di Nael. «Per Nael e per tutti voi. In fin dei conti, non possiamo lasciare che ci siano testimoni di un simile assassinio a sangue freddo, giusto?»

Con calma, l’altra guardia azionò la balestra, e Hammuras morì.

Mentre i tre mercanti superstiti urlavano e scattavano in piedi con aria disperata, entrambe le guardie gettarono da parte le balestre ormai scariche e rimossero i cuscini che coprivano uno scaffale applicato allo schienale della sedia di Caethur: altre quattro balestre scintillarono sotto la luce della lampada, cariche e pronte all’uso. Con freddezza, le guardie le afferrarono, e le utilizzarono.

Kamburan continuò a gemere per un tempo sorprendentemente lungo, ma a parte la sua voce, nell’arco di un paio di secondi nella stanza regnò il silenzio.

«A proposito», aggiunse l’usuraio, in tono colloquiale, rivolto ai cadaveri, «le quadrelle utilizzate dai miei uomini sono cosparse di brucia-cervello, per evitare che i maghi ficcanaso dell’Ordine di Sorveglianza possano apprendere qualcosa del nostro incontro… e scoprire in che modo siate stati tanto sbadati da finire tutti con un dardo da guerra piantato nella faccia. Dopo tutto, non vorremo certo varare un’altra sconsiderata moda cittadina, giusto?».

Alzatosi dalla sedia, Caethur rivolse un cenno del capo alle due guardie e indicò con la mano in direzione dei due cofanetti di gemme.

«Quando avrete finito di spogliare i corpi di tutti i documenti e le monete, prendete anche quelli», ordinò.

Mentre oltrepassava la porta e sgusciava fuori dalla stanza, l’usuraio estrasse dalla sacca da cintura un oggetto che sembrava un artiglio: una barra costellata da una fila di piccole daghe, che gli sporsero fra le dita come una serie di artigli avvolti da un fodero quando lui chiuse il pugno intorno a essa. Usando l’altra mano, Caethur sfilò dalla cintura una daga e la usò per rimuovere con cautela il fodero di ogni piccola lama, ciascuna con la punta affilata coperta di una sostanza umida e scura.

Infilata la daga in un’asola della cintura e nascosta dietro la schiena la mano che stringeva gli artigli avvelenati, Caethur attese, canticchiando sotto voce un’allegra canzonetta; quando poi le due guardie del corpo uscirono infine dalla stanza, le fissò con aria accigliata bloccando loro il passo, e accennò alla camera alle loro spalle.

«Vi è sfuggito qualcosa», affermò in tono tagliente.

I due uomini lo fissarono con aria sorpresa e contrariata, ma si girarono di scatto per guardare in direzione dei mercanti morti, perché l’usuraio non era un padrone che convenisse contrariare.

Nel momento stesso in cui i due si volsero, Caethur mosse un rapido passo in avanti e li ferì entrambi al collo con gli artigli, balzando poi subito all’indietro per evitare gli spasmi convulsi che sapeva essere sul punto di scatenarsi.

Le guardie erano giovani e forti, e dopo essersi irrigidite entrambe con un identico grugnito di dolore e di sorpresa, riuscirono a girarsi di scatto verso il loro padrone, fissandolo con ira e artigliando l’aria per qualche secondo prima che il veleno bloccasse loro gli arti, facendoli precipitare nel lungo, gelido tunnel oscuro dell’oblio.

Caethur conficcò nel corpo degli uomini che aveva appena ucciso un altro coltello, questo abbondantemente cosparso di brucia-cervello, poi procedette con calma a prelevare ogni oggetto di valore presente in quella stanza piena di cadaveri. Dopo tutto, il brucia-cervello era costoso… e quando si fosse venuto a sapere degli eventi di quella notte, il prezzo richiesto dalle guardie disposte a lavorare per lui sarebbe inevitabilmente salito di parecchio.

D’altro canto, il costo legato al rischio che un singolo uomo potesse informare i Signori di Waterdeep delle sue azioni era ancora più elevato. Il mantello di Kamburan, ancora drappeggiato sullo schienale della sedia, era privo di macchie, e una volta appallottolato intorno al bottino servì egregiamente da sacchetto per trasportarlo; quando ebbe finito, l’usuraio si avvolse nel proprio mantello, senza un capello fuori posto e con il solito sorriso disinvolto dipinto sul viso.

Quella non era la prima volta in cui Caethur l’usuraio usciva da una stanza piena di cadaveri. Dopo tutto, cose del genere erano un aspetto spiacevole, ma fin troppo spesso inevitabile, della sua professione.

* * *

Fuori, l’ombra si mosse, oscillando verso l’alto e lontano dall’imposta, per raggiungere il bordo del tetto. Un piede calzato di stivale scivolò, un’imprecazione affiorò vivida e improvvisa in una mente che stava costringendo con freddezza il proprio corpo penzolante nel vuoto a rimanere in silenzio, e con uno scatto deciso l’ombra raggiunse il tetto, allontanandosi.

* * *

L’avvertì non appena entrato nel portale: una perturbazione del flusso della Tela, proprio davanti a lui. Qualcuno, o qualcosa, stava lanciando un incantesimo sulla destinazione che aveva scelto o aveva già applicato su di essa una trappola magica.

Soltanto le persone come lui, profondamente in sintonia con la Tela, potevano percepire la cosa, e agire in modo da evitare il pericolo in attesa.

Ridacchiando in silenzio, l’arcimago si spostò di lato, muovendosi attraverso i fluenti veli di nulla azzurro in modo da emergerne altrove, mediante un portale che non fosse collegato a quello da cui era entrato o a quello manomesso su cui si affacciava.