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Adikor si chiese in quale delle due ali fosse conservato il cubo di Ponter. Tecnicamente, il giudice ancora non ne aveva decretato la morte, quindi si augurò che si trovasse nella zona riservata ai vivi: se fosse già stato portato nell'altra ala, temeva di perdere il controllo.

Non era la prima volta che si recava in quel posto. L'ala che sorgeva a settentrione, quella dei morti, era composta da sale separate da arcate, una per ogni generazione. La prima, molto piccola, conteneva un solo cubo, quello di Walder Shar, l'unico membro della generazione 131 ad essere ancora in vita quando erano stati introdotti i Companion. Le successive quattro sale erano progressivamente più grandi, e vi erano stati immagazzinati i cubi delle generazioni 132, 133, 134 e 135, ognuna dieci anni più giovane della precedente. A partire dalla generazione 136, tutte le sale avevano la stessa ampiezza, anche se quelle delle generazioni successive alla 144, i cui nati erano quasi tutti in vita, contenevano pochissimi cubi.

L'ala meridionale aveva invece una sola sala, dove trovavano posto trentamila contenitori nei quali erano sistemati i cubi degli alibi. Sebbene inizialmente tutto il materiale fosse tenuto in ordine, con il succedersi di nuove generazioni, ognuna delle quali suddivisa per sesso, l'ordine era andato perduto. Se era semplice ordinare i neonati in gruppi di nascita omogenei, gli adulti morivano a età differenti, per questo i cubi delle generazioni successive erano stati inseriti nei contenitori vuoti senza un ordine logico. E poiché i cubi erano più di venticinquemila — la popolazione di Saldak — era impossibile effettuare una ricerca senza un elenco alfabetico. Il giudice Sard si presentò alla Custode degli alibi, una donna corpulenta della generazione 143.

«Buongiorno, signor giudice» salutò l'impiegata, seduta dietro un tavolo a forma di rene su una sedia che sembrava una sella.

«Buongiorno» rispose Sard. «Ho bisogno di accedere all'archivio degli alibi di Ponter Boddit, un fisico della generazione 145.»

La donna annuì e bofonchiò qualcosa a un computer, il cui schermo quadrato mostrò immediatamente una serie di numeri. «Venga con me» disse; Sard e il resto della compagnia seguirono la donna.

Malgrado la mole, la custode aveva un passo agile. Li condusse attraverso una serie di corridoi, sulle cui pareti erano allineate delle nicchie, ognuna contenente un cubo degli alibi, un blocco di granito ricostituito grande quanto una testa umana. «Eccolo qua» disse la donna. «Contenitore numero 16.321: Ponter Boddit.»

Il giudice annuì, quindi mise il polso rugoso sul contenitore, con il Companion in direzione del baluginante occhio blu al centro del cubo. «Io, giudice Komel Sard, con il presente atto dispongo l'apertura del contenitore dell'alibi numero 16.321, necessaria alle indagini in corso. Registrazione dell'ora di apertura.»

L'occhio divenne giallo. Il giudice si fece da parte, e l'archivista puntò il suo Companion: «Io, Mabla Dabdalb, Custode degli alibi, con il presente atto concordo con la richiesta di apertura del contenitore numero 16.321, necessaria alle indagini in corso. Registrazione dell'ora di apertura.» L'occhio divenne rosso ed emise un segnale.

«Ecco fatto, signor giudice. Può usare il proiettore della stanza numero dodici.»

«Grazie» disse Sard, che insieme al suo seguito si diresse nella stanza loro assegnata.

La sala era un ampio quadrato, con una fila di sedili a forma di sella allineati lungo una parete, su cui presero posto tutti a eccezione di Bolbay, che si avvicinò alla consolle di controllo incastrata nel muro. Era possibile accedere agli archivi degli alibi solo da quell'edificio; e, a protezione di eventuali visioni degli alibi non autorizzate, il padiglione dove erano sistemati gli archivi era completamente isolato dalla rete di informazioni planetaria, né esistevano linee di telecomunicazione con l'esterno. Anche se era scomodo recarsi di persona a visionare le proprie registrazioni, tale isolamento era reputato una tutela adeguata.

Bolbay esaminò il gruppetto che aveva radunato, e cominciò: «Molto bene. Adesso vedremo i fatti accaduti il 146/128/11.»

Adikor annuì rassegnato. Non ricordava quello che era accaduto l'undicesimo giorno, ma la centoventottesima luna dalla nascita della generazione 146 suonava bene.

La stanza piombò nel buio, e dall'alto si materializzò una sfera appena visibile, simile a una bolla di sapone. Evidentemente Bolbay non era soddisfatta della sua grandezza: Adikor la sentì smanettare sul pannello dei comandi, aumentando gradualmente il diametro. Al suo interno comparvero tre sfere più piccole, ognuna di un colore lievemente diverso. Ognuna delle tre sfere si scisse in tre ulteriori sfere, e così via, come l'immagine accelerata di una cellula sconosciuta in un processo di mitosi. La superficie delle sfere più grandi veniva via via occupata da quella delle sfere più piccole, che assumevano sempre nuovi colori, finché il processo ebbe termine e nella prima sfera prese forma l'immagine, simile a una scultura tridimensionale composta di perline, di un giovane in piedi in una stanza a pressione positiva, adibita allo studio nell'Accademia delle scienze.

Adikor annuì; la registrazione era stata effettuata molto prima che fossero sviluppate le nuove risoluzioni fotografiche, ma tutto sommato la qualità dell'immagine era accettabile.

Bolbay continuava ad armeggiare sul pannello di controllo. La bolla ruotava in modo che tutti i presenti nella stanza potessero vedere il viso della persona inquadrata: si trattava di Ponter Boddit. Adikor aveva dimenticato com'era il suo volto da giovane. Si girò verso Jasmel, che gli sedeva accanto. La ragazza aveva gli occhi spalancati, colmi di meraviglia. Forse la colpiva il fatto che in quel tempo suo padre avesse più o meno la sua età; in effetti, quando erano state girate quelle immagini Klast era già incinta di lei.

«Ovviamente si tratta di Ponter Boddit» disse Bolbay. «Qui aveva circa la metà degli anni che avrebbe se fosse ancora vivo.» E aggiunse subito, per evitare un ennesimo rimprovero dal giudice: «Adesso andrò avanti velocemente…»

Le immagini di Ponter seduto, in piedi, che passeggiava in una stanza, consultava degli appunti, si grattava contro un palo, scorsero velocissime. Poi la porta si aprì — la pressione positiva della stanza era costruita in modo da non lasciar filtrare gli ormoni, che avrebbero potuto disturbare lo studio — e il giovane Adikor Huld fece il suo ingresso nella stanza.

«Fermi l'immagine» ordinò il giudice Sard. Quindi, rivolto ad Adikor: «Scienziato Huld, conferma che si tratta di lei?»

Adikor era mortificato nel vedersi in quelle condizioni; aveva dimenticato che per un breve periodo della sua vita aveva tagliato la barba. Ah, fosse stata quella l'unica follia della sua gioventù! «Sì, Vostro Onore,» rispose a voce bassa «sono io.»

«Bene» prese atto Sard. «Procediamo.»

L'immagine nella bolla ricominciò ad andare avanti a grande velocità. Adikor si muoveva nella stanza, come lo stesso Ponter, la cui immagine rimaneva sempre al centro della sfera.

I due giovani davano l'impressione di conversare amabilmente…

Poi un po' meno…

Bolbay mise il nastro a velocità normale.

Ponter e Adikor stavano litigando.

E poi…

… poi…

… poi…

Adikor avrebbe voluto chiudere gli occhi: il ricordo di quel fatto era stampato a fuoco dentro di lui, ma non aveva mai visto la scena da un'altra prospettiva, né l'espressione del suo volto…