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Per questo Lurt sapeva che il suo cubo era sistemato nel contenitore numero 13.997: non fu quindi necessario che la Custode degli alibi facesse la ricerca sul computer. La donna si limitò ad accompagnarla, dopodiché Lurt mise il suo Companion di fronte all'occhio blu pronunciando la frase di rito: «Io, Lurt Fradlo, desidero visionare il mio archivio degli alibi per semplice curiosità. Registrazione dell'ora di apertura.»

L'occhio divenne giallo, identificandola.

A sua volta l'archivista puntò il suo Companion e disse: «Io, Mabla Dabdalb, Custode degli alibi, attesto che la qui presente Lurt Fradlo è stata identificata in mia presenza. Registrazione dell'ora di apertura.»

L'occhio divenne rosso emettendo un segnale acustico.

«Tutto a posto. Puoi usare il proiettore della sala quattro» disse Mabla. La sala quattro era una stanzetta con una sola sedia. Lurt immaginò che da qualche parte, in una sala come quella, un addetto alla sorveglianza stesse controllando in tempo reale le trasmissioni del Companion di Adikor.

Ma se era possibile visionare in diretta le immagini da parte di terzi, non si poteva registrare il presente e contemporaneamente visionare le immagini del passato.

Azionò i comandi, selezionando un giorno a caso: la bolla olografica si riempì di immagini banali che la mostravano nel suo laboratorio. Mentre le immagini scorrevano, uscì dalla stanza, come per andare al bagno. In un corridoio deserto si guardò intorno, infilò un paio di guanti, tirò fuori il piccolo congegno che aveva portato con sé, lo attivò e lo gettò in un contenitore per il riciclaggio di materiale usato. Poi si sfilò i guanti.

Bolbay aveva torto, pensò mentre tornava fischiettando nella sala quattro. Il luogo perfetto dove commettere un omicidio non era nelle viscere della terra, ma proprio lì, nell'edificio degli archivi, dove nessuno poteva vederti perché il tuo cubo degli alibi era in funzione, quindi non poteva registrare…

Inizialmente, per ottenere l'effetto desiderato aveva pensato di usare il solfato d'idrogeno, ma una concentrazione superiore a 500 parti su un milione poteva essere fatale in breve tempo. Quindi aveva preso in considerazione il muschio artificiale di moffetta, ma la formula era troppo complessa: trans-2-butilene-1-tiolo, 3-metile-1-butilenetiolo, trans-2-buteniltioacetato, e altro ancora. Alla fine aveva deciso per il solfato di ammonio, usato spesso da quei bambini che non hanno ancora imparato che il Companion registra tutte le loro marachelle.

A pensarci, un olfatto così sviluppato aveva certo i suoi svantaggi: aveva sentito dire che la ragione per cui la sua specie, a differenza degli altri primati, mangiava pochissimi vegetali era la difficoltà a tollerare le flatulenze prodotte da una dieta a base di verdure.

Rimase in attesa, le narici dilatate. Probabilmente fu la prima a sentire l'odore, anche se la stanza dove stava visionando il cubo era piuttosto lontana dal luogo in cui aveva lasciato il congegno, ma evitò di dare l'allarme. Rimase seduta finché non sentì qualcuno accorrere, quindi lasciò la sala, trattenendo i conati di vomito procurati dall'insopportabile odore. Un tipo grande e grosso uscì di corsa da una stanza, la mano sul naso. Lurt pensò che fosse l'addetto alla sorveglianza di Adikor, e ne ebbe la conferma quando dal corridoio intravide nell'ologramma a bolla l'immagine di Jasmel e Adikor che uscivano di casa.

«Cos'è questa puzza terribile?» disse la Custode degli alibi con una smorfia che le deformava il viso.

«È terribile!» disse un altro, facendosi largo a forza verso l'uscita.

«Aprite le finestre! Aprite le finestre!» gridò un terzo.

Lurt si unì al gruppo che si affrettava verso l'uscita. Ci sarebbe voluta qualche ora prima che quella puzza si disperdesse e i locali fossero di nuovo agibili.

Sarebbe bastato ad Adikor per mettere in atto il suo progetto?

Il giorno seguente Mary si recò all'università Laurenziana; aveva finalmente deciso di liberarsi una volta per tutte dei giornalisti che presidiavano l'ingresso del suo albergo. I reporter erano rimasti delusi di non aver incontrato Ponter. Reuben aveva dichiarato che il Neandertal aveva bisogno di riposo, e aveva fatto in modo di depistare la stampa. Quella sera stessa Mary lo aveva accompagnato di nuovo a casa di Reuben.

Quando alle dieci e trenta, nel corridoio di fronte ai laboratori di genetica, si imbatté in Louise Benoìt, ne fu molto sorpresa. La ragazza indossava un paio di attillatissimi pantaloncini corti di cotone e una maglietta bianca con un nodo alla cintola che metteva a nudo il ventre piatto. Be', pensò, faceva sì un caldo micidiale, ma così conciata sembrava proprio che se la stesse cercando…

No!

Si maledì per averlo pensato; una donna poteva vestirsi come voleva, avere il diritto di essere lasciata in pace e potersi muovere liberamente senza subire molestie di nessun genere. Decise di mostrarsi cordiale, e la salutò con quelle poche parole di francese che conosceva: «Bonjour. Comment ça va?»

«Bene, grazie. E lei?»

«Bene. Che fa di bello da queste parti?»

«Sono andata a trovare degli amici del dipartimento di fisica. In questo periodo non ho molto da fare all'osservatorio. Hanno finito di drenare la camera di rilevamento, e la ditta costruttrice della sfera di acrilico si sta occupando della sua sistemazione, ma ci vorranno ancora delle settimane. Così ho pensato di discutere di una certa idea con un paio di persone, per vedere se potevano danni qualche dritta.»

Mary si avvicinò a un distributore automatico per prendere una busta di patatine al malto e aceto, un vizio che poteva permettersi solo dal punto di vista economico, ma che da lungo tempo si concedeva, iniziando la settimana lavorativa con una confezione da 43 grammi.

«E gliel'hanno data?»

Louise scosse il capo.

«L'idea è buona?»

«Suppongo di sì» rispose Louise. Mary frugò nella borsa in cerca di spiccioli, tirò fuori un dollaro e un quarto e lo inserì nel distributore automatico, mentre la giovane ricercatrice prendeva del caffè da un altro distributore.

«Si ricorda quella riunione nella sala conferenze della Inco?» disse Louise. «Be', come dissi allora, le teorie della meccanica quantistica sull'esistenza di universi paralleli affermano che ogniqualvolta un evento quantistico può prendere due direzioni, allora le prende effettivamente.»

«Una scissione della sequenza temporale?» chiese Mary sedendosi sul bracciolo di una poltroncina imbottita in vinile.

«Oui» disse Louise. «Be', ne abbiamo parlato parecchio con Ponter.»

«Sì, lo aveva detto infatti, ma non ci avevo fatto caso» ricordò Mary.

«Era sera tardi, e…»

«È tornata nella sua stanza dopo la lezione di inglese?» chiese Mary, incredula dell'impeto di… o mio Dio, gelosia, che l'aveva colta.

«Certo. Lo sa che mi piace stare sveglia la notte. Ero curiosa di saperne di più sulle cognizioni di fisica dei Neandertal.»

«E allora?» volle sapere, sforzandosi di mantenere fermo il tono della voce.

«Be', è molto interessante» disse Louise mentre sorseggiava il caffè. «Qui da noi ci sono due principali interpretazioni della meccanica quantistica: quella di Copenaghen e quella dell'esistenza di mondi paralleli di Everett. La prima conferisce un ruolo fondamentale all'osservatore, la cui coscienza influenzerebbe la realtà. Be', questa idea mette a disagio un sacco di ricercatori, e da alcuni è vista come un ritorno al vitalismo. La teoria di Everett elabora questo concetto, affermando che i fenomeni quantistici provocano una continua scissione dei mondi, ma gli effetti di queste interazioni quantistiche hanno luogo ognuno in un universo differente. Non è l'osservatore a determinare la realtà, bensì ogni realtà concepibile come esistente, esiste di per sé.»