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Smorzò le luci del laboratorio; spegnendosi, uno dei neon mandò un sibilo. Chiuse la porta e scese nel corridoio del secondo piano, oltrepassò la macchina distributrice della Pepsi (la società aveva dato due milioni di dollari alla York University per la fornitura esclusiva delle sue bevande).

Le pareti del corridoio erano tappezzate di bacheche che indicavano l'inizio dei corsi, orari e aule delle lezioni, riunioni dei circoli, inviti alla sottoscrizione di riviste, carte di credito convenienti e ogni sorta di articolo che gli studenti potessero vendere, compreso l'annuncio di un burlone che sperava di trovare qualcuno che comprasse la sua vecchia macchina da scrivere elettrica.

Mary proseguì lungo il corridoio deserto, i tacchi che picchiettavano sul pavimento. Passando davanti al bagno degli uomini sentì il rumore dello scarico, attivato forse automaticamente da un timer.

Aprì la porta a vetri antisfondamento che dava sulla tromba delle scale, e si diresse verso le quattro rampe in cemento. Al piano terra imboccò un altro corridoio, in fondo al quale c'era solo un portiere indaffarato. Attraversò il vestibolo d'ingresso, dove erano situate le cassette contenenti il giornale del campus, The Excalibur, e finalmente si lasciò alle spalle l'edificio, immergendosi nella calda aria estiva.

La luna non era ancora sorta. Mary si avviò sul marciapiede, dove incrociò alcuni studenti che non conosceva. Schiacciò un insetto e…

Sentì una mano serrarle la bocca e qualcosa di freddo e appuntito contro la gola. «Non fiatare» le intimò un'aspra voce gutturale, mentre veniva spinta all'indietro.

«Ti prego…» riuscì solo a dire Mary.

«Stai zitta» disse l'uomo continuando a trascinarla all'indietro, il coltello sempre puntato alla gola. Il cuore le martellava con violenza. L'uomo tolse la mano dalla bocca, e cominciò a strizzare il seno sinistro, facendole male.

L'aveva trascinata in una nicchia, due mura di cemento ad angolo retto nascoste dietro un grosso pino. La costrinse a voltarsi, immobilizzandola con le mani contro il muro, la mano sinistra che stringeva il pugnale e le serrava il polso. Adesso lo vedeva. Malgrado indossasse un passamontagna nero, per via del colore della pelle attorno agli occhi azzurri si accorse che era un bianco. Gli sferrò una ginocchiata nell'inguine, ma lo colpì solo di striscio perché l'uomo si inarcò all'indietro.

«Non ci provare» ansimò la voce. Il fiato sapeva di tabacco, le mani che le serravano i polsi erano sudate. Con un braccio la strattonò sbattendola contro il muro e puntandole il coltello al volto, mentre con l'altra mano apriva la lampo dei pantaloni. La donna sentiva un sapore rancido in gola.

«Ho… ho l'AIDS» provò a dire chiudendo gli occhi per non vedere.

L'uomo rise, un suono raschioso come di carta vetrata. «Allora siamo in due» rispose. Il cuore le sobbalzò. Ma forse anche lui mentiva. Quante volte l'aveva già fatto? E quante donne avevano tentato quella mossa disperata?

Adesso sentiva una mano sui fianchi, che spingeva in basso. La lampo si aprì e i pantaloni le scivolarono lungo le gambe, mentre il bacino dell'uomo con l'erezione dura come roccia sfregava contro le sue mutandine. Cacciò un urlo, ma l'implacabile mano le afferrò subito la gola, le unghia affondate nella carne. «Stai zitta, puttana.»

Perché non passava nessuno? Perché non c'era anima viva lì intorno? Dio, perché…

Sentì la mano strapparle le mutandine, poi il pene contro le grandi labbra, che affondò subito nella vagina. Un dolore lancinante, come una lacerazione interna.

Non è un atto di libidine, pensava mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. È una violenza sessuale. La schiena sbatteva contro il muro di cemento, e l'uomo spingeva sempre più forte, penetrandola, ancora, ancora e ancora, il rantolo animalesco che aumentava ad ogni affondo.

Finalmente, si fermò. Lo tirò fuori: sapeva che doveva guardarlo per notare qualche dettaglio utile a identificare il suo aggressore, per esempio se era circonciso, o una qualsiasi cosa che potesse inchiodare quel bastardo, ma fu più forte di lei. Alzò la testa verso il cielo scuro, una macchia annebbiata dalle lacrime che le bruciavano gli occhi.

«Adesso aspetta qui» disse l'aggressore passandole la punta del coltello sulla guancia. «Rimani ferma un quarto d'ora senza fiatare.» Poi sentì il rumore della lampo che si chiudeva e i passi sull'erba che si allontanavano velocemente.

Si appoggiò al muro e si lasciò scivolare sul marciapiede, rannicchiandosi con le ginocchia sotto il mento. Non sopportava l'idea di essersi fatta scappare quegli stupidi singhiozzi.

Dopo un po' si mise una mano tra le gambe, per controllare se stesse sanguinando. No, grazie a Dio.

Temeva di vomitare se si fosse alzata in piedi, quindi aspettò che il respiro tornasse regolare e che la nausea passasse. Poi si rialzò lentamente, sentendo dolore. In lontananza, voci di donne, due studentesse che parlavano allegramente. Avrebbe voluto chiedere aiuto, ma la voce non le uscì.

Aveva freddo, come non ne aveva mai provato, malgrado dovessero esserci almeno venticinque gradi. Si strofinò, per riscaldarsi.

Si riebbe dopo… cinque minuti? Cinque ore? Chi poteva dirlo? Doveva trovare un telefono, comporre il 113 e chiamare la polizia di Toronto… o la polizia del campus, o — lo sapeva, l'aveva letto sul manuale distribuito dall'università — l'ufficio denunce per le violenze sessuali dell'università, ma…

Ma non voleva parlarne con nessuno, non voleva che qualcuno la vedesse… in quelle condizioni.

Si tirò su i pantaloni, fece un grosso respiro e si avviò. Non si accorse subito che invece di andare verso la macchina stava tornando alla facoltà di scienze. Poco dopo era di nuovo lì. Salì le quattro rampe di scale tenendosi saldamente al corrimano, temendo di perdere l'equilibrio e di cadere. Per fortuna, il corridoio era deserto, come l'aveva lasciato. Lo attraversò senza incontrare nessuno, entrò nel laboratorio e accese le luci.

Il problema non era rimanere incinta, dato che prendeva la pillola da quando aveva sposato Colm. Aveva continuato a prenderla anche dopo la separazione, anche se tutto sommato non ce n'era stato motivo. Il problema era l'AIDS: doveva fare il test al più presto.

Decise di non raccontare a nessuno quello che le era accaduto. Eppure, quante volte aveva imprecato contro le donne che non denunciavano gli stupri subiti? Era come un tradimento verso le altre donne, che permetteva a un mostro di farla franca e riprovarci con qualcun'altra, a… a lei, come era successo adesso, ma…

… era facile parlare quando non capitava a te.

Sapeva quello che rischiavano le donne che accusavano gli uomini di stupro, lo aveva visto innumerevoli volte alla TV. Avrebbero fatto di tutto per dimostrare che la colpa era sua, che aveva reso falsa testimonianza, che in una qualche maniera era consenziente, che era una donna di scarsa moralità. 'Allora, lei afferma di essere una buona cattolica, signora O'Casey - ops, mi spiace, lei non porta più questo nome, vero? Da quando ha lasciato suo marito Colm. Bene, adesso il suo nome è Vaughan, vero? Eppure, se non erro, legalmente lei è ancora sposata con il professor O'Casey. Per favore, vuole dire alla corte se da quando ha lasciato suo marito è andata a letto con altri uomini?'

Lo sapeva bene: la giustizia non abita quasi mai le aule di tribunale. L'avrebbero fatta a pezzi e ricostruita in sembianze che lei stessa non avrebbe riconosciuto.

E comunque non sarebbe servito a niente. Il mostro l'avrebbe passata liscia.

Respirò a fondo. Forse era meglio agire diversamente. Ma l'unica cosa che a quel punto importava davvero era la prova fisica della violenza, e lei, la professoressa Mary Vaughan, era competente quanto una poliziotta specializzata nell'accertamento delle violenze sessuali.