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Nato fra le vette nere e taglienti dove la morte scorrazzava negli alti valichi e tuttavia si nascondeva da cose ancora più pericolose, il vento soffiò verso meridione, sopra l’intricata foresta della Grande Macchia, contaminata e contorta dal tocco del Tenebroso. Il lezzo di corruzione, dolciastro e nauseante, si affievolì, quando il vento oltrepassò la linea invisibile che gli uomini chiamavano la frontiera dello Shienar, dove i fiori primaverili sbocciavano fitti sugli alberi. Ormai in teoria era estate, ma la primavera era giunta in ritardo e la terra ricuperava il tempo perduto. Il verde chiaro di germogli appena spuntati ornava ogni cespuglio e foglioline rosse coprivano ogni ramo. Il vento increspò i campi dei contadini come se fossero laghetti verdeggianti, fitti di messi che parevano crescere a vista d’occhio.

Il lezzo di morte era quasi sparito, molto prima che il vento giungesse alle mura della città di Fal Dara e sferzasse la torre della roccaforte al centro dell’abitato, una torre in cima alla quale due uomini parevano danzare. Fal Dara, dalle mura alte e robuste, sia fortezza sia città, mai caduta, mai tradita. Il vento gemette sui tetti a scandole di legno, intorno ad alti comignoli di pietra e a torri ancora più alte, gemette come canto funebre.

A dorso nudo, Rand al’Thor rabbrividì sotto la gelida carezza del vento e fletté le dita intorno all’elsa della spada da allenamento. Il sole caldo gli aveva reso lucida la pelle e incollato alla testa, in ciocche madide, i capelli d’un rosso piuttosto scuro. Rand arricciò le narici al lieve odore nel turbine d’aria, ma non lo collegò all’immagine che gli balenò nella mente, quella d’una vecchia tomba appena aperta. Non badò affatto all’odore e all’immagine, perché cercava di mantenere sgombra la mente; ma l’uomo che occupava con lui la piattaforma terminale della torre continuava a intrufolarsi in quel vuoto. La piattaforma aveva un diametro di dieci passi ed era circondata da un muretto a merli che arrivava al petto: abbastanza ampia da non dare l’impressione di mancanza di spazio... a meno che uno non la dividesse con un Custode.

Per quanto giovane, Rand era più alto della media; ma Lan lo uguagliava in altezza ed era più muscoloso, anche se non molto largo di spalle. Una stretta fascia di cuoio intrecciato impediva che i lunghi capelli del Custode cadessero sul viso, un viso che pareva scolpito nella pietra, privo di rughe quasi a smentire le tempie brizzolate. Nonostante il caldo e la fatica, solo un velo di sudore gli luccicava sul petto e sulle braccia. Rand cercò gli occhi azzurri e gelidi di Lan, per avere un indizio delle intenzioni del Custode. Pareva che Lan non battesse mai le palpebre e nelle sue mani la spada d’addestramento si muoveva con sicurezza e fluidità da una posizione all’altra.

Con un fascio di listelli di legno legati lascamente al posto della lama, la spada d’addestramento provocava un forte schiocco quando andava a segno e lasciava lividi sulla carne. Rand lo sapeva fin troppo bene: tre sottili linee rosse gli segnavano il torace e una quarta gli bruciava sulla spalla. Si era dovuto impegnare al massimo, per evitare altre decorazioni del genere. Lan non aveva neppure un segno.

Come gli era stato insegnato, Rand creò nella propria mente una singola fiamma e si concentrò su di essa; tentò di riversarvi tutte le emozioni, per formare dentro di sé il vuoto, lasciando fuori perfino il pensiero stesso. Il vuoto si formò. Ma, come spesso gli accadeva negli ultimi tempi, non era un vuoto perfetto: vi restava la fiamma, oppure un’impressione di luce vi mandava increspature, Ma bastava, quasi. La fresca pace del vuoto scivolò su di lui e Rand fu tutt’uno con la spada, con le pietre levigate sotto i suoi piedi, perfino con Lan. Si mosse senza pensare, in un ritmo che uguagliava passo su passo, mossa su mossa, quello del Custode.

Il vento si alzò di nuovo e portò dalla città un rintocco di campane. C’era gente che ancora celebrava l’arrivo della primavera. Questo pensiero estraneo svolazzò come onde di luce nel vuoto mentale di Rand, disturbandolo; la spada di Lan divenne un turbine, quasi il Custode leggesse la mente dell’avversario.

Per un buon minuto sulla piattaforma della torre risuonò il rapido schiocco dei listelli. Rand non tentò di colpire: riusciva a malapena a evitare i fendenti del Custode. Deviandoli all’ultimo momento, fu costretto a indietreggiare. Lan non cambiò mai espressione; in mano sua, la spada pareva viva. All’improvviso un suo fendente cambiò direzione e divenne un affondo. Sorpreso, Rand arretrò d’un passo e trasalì in attesa del colpo che sapeva di non poter parare.

Il vento ululò sferzando la torre... e intrappolò Rand, come se all’improvviso l’aria si fosse mutata in gelatina e l’avesse rinchiuso in un bozzolo, spingendolo avanti. Tempo e movimento rallentarono; inorridito, Rand guardò la spada di Lan veleggiare verso il suo torace: le costole gli scricchiolarono come colpite da un martello. Rand mandò un grugnito, ma il vento non gli permetteva d’allontanarsi, continuava a spingerlo avanti. I listelli della spada di Lan si piegarono, si spezzarono: punte aguzze dirette contro il cuore, schegge seghettate che lacerarono la pelle. Rand sentì un dolore lancinante, come se gli avessero strappato la pelle in tutto il corpo.

Con un grido si tirò indietro, barcollò e cadde contro il muretto di pietra. Con mani tremanti si toccò il torace pieno di tagli; incredulo, si guardò le dita insanguinate.

«Cos’era quella mossa sciocca, pastore? “» lo rimproverò Lan. «Hai dimenticato tutto quel che ho cercato d’insegnarti? Ti sei fatto...» S’interruppe, perché Rand aveva alzato lo sguardo.

«Il vento» disse il giovane, con la bocca secca. «Mi... mi ha spinto! Era solido come un muro!»

Il Custode lo fissò, in silenzio, poi gli tese la mano. Rand la prese e si lasciò tirare in piedi.

«Cose bizzarre possono accadere così vicino alla Macchia» disse infine Lan, in tono piatto; ma pareva turbato e questo, di per sé, era già fuor del comune. I Custodi, quei guerrieri quasi leggendari al servizio delle Aes Sedai, di rado mostravano emozioni e Lan ne mostrava ancora meno di un normale Custode, Gettò da parte la spada di listelli spezzati e si appoggiò al muro, dov’erano posate le spade vere.

«Non bizzarre come questa» protestò Rand. Imitò il Custode e si sedette sui talloni, con la schiena contro il muro di pietra. Così il muro gli arrivava più in su della testa e lo proteggeva dal vento. Se di vento si trattava. Nessun vento era mai parso solido come quello. «Cose del genere forse non accadono neppure nella Macchia!»

«Nel caso di uno come te...» disse Lan, con una scrollata di spalle, come se la frase spiegasse ogni cosa. «Quanto manca, alla tua partenza, pastore? Ormai è trascorso un mese da quando avevi detto che stavi per andartene. Ti credevo già partito da tre settimane almeno.»

Rand lo guardò, sorpreso: Lan si comportava come se niente fosse accaduto! Perplesso, mise da parte la spada d’addestramento e prese quella vera; accarezzò la lunga elsa avvolta da strisce di cuoio, sulla quale era incastonato un airone di bronzo. Un altro airone era inciso sul fodero e un terzo sulla lama. Rand non si era ancora abituato a possedere una spada, una qualsiasi, per non parlare addirittura di una col marchio di mastro spadaccino. Lui era un paesano dei Fiumi Gemelli, territorio ora lontanissimo, forse irraggiungibile per sempre. Faceva il pastore, come suo padre, che gli aveva dato la spada col marchio dell’airone. Tam era suo padre, qualsiasi cosa dicessero gli altri; ma pareva quasi che di questo Rand volesse convincersi da solo.

Di nuovo sembrò che Lan gli leggesse nella mente. «Nelle Marche di Confine, pastore, se un uomo alleva un bambino, quel bambino è suo figlio e nessuno dice diversamente.»