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Leigh Brackett

La legge dei Vardda

1

Michael Trehearne doveva ricordare quella sera come la fine del mondo. La fine di una vita familiare in una Terra conosciuta e la prima lampeggiante visione dell’incredibile. Tutto cominciò quando l’uomo gli rivolse la parola sulle colline dietro Saint-Malo, al bagliore dei fuochi di mezza estate.

Vi era una gran folla di turisti, venuti a vedere l’antica festa bretone del falò sacro. Trehearne si trovava semplicemente tra loro, non era uno di loro. Se ne stava solo. Era sempre solo. In quel momento pensava che i riti che si compivano nell’ampio spazio di terriccio pietroso erano troppo singolari perché una persona normale li potesse sopportare fino alla fine, e si chiedeva perché mai si fosse preso la briga di assistervi, quando qualcuno gli disse in una forma di strana confidenza: «Fra quattro giorni sarà tutto finito e ce ne andremo a casa. È un pensiero che fa bene, non è vero?»

Trehearne volse il capo e si trovò di fronte a un volto così simile al suo che trasalì.

Si trattava di una somiglianza evidente in una vigorosa impronta di razza piuttosto che di una affinità di consanguinei. Se due Moaawaks dovessero incontrarsi inaspettatamente sulle colline dell’Afghanistan, si riconoscerebbero, e così era per Trehearne e lo straniero. Avevano in comune la stessa struttura da dominatori, la stessa bellezza strana e impressionante di forme e di colori che sembrava non avere radici in alcuna razza terrestre, lunghi occhi gialli, lievemente obliqui, screziati di piccole macchie dalla luce verde. E in ambedue era la stessa fierezza. Poiché Trehearne lo fissava stupito, lo straniero osservò: «Non mi ricordo di avervi visto sull’ultima nave. Da quanto tempo siete qui?»

«Da ieri» rispose Trehearne e pronunciando quelle parole si rese conto che non erano quelle che lo straniero si aspettava da lui. Un violento brivido di eccitazione lo percorse. Impulsivamente disse: «Sentite, voi mi avete confuso con qualcun altro; ma ne sono lieto!» Nella sua ansia afferrò il braccio dell’uomo. «Devo parlarvi.»

Qualcosa era mutato nell’espressione dello straniero. I suoi occhi esprimevano ora diffidenza e sorpresa insieme. «E di che cosa?»

«Della vostra; della mia famiglia. Perdonatemi se vi sembro importuno, ma per me è molto importante. Ho fatto un lungo viaggio, dall’America fino in Cornovaglia e ora in Bretagna nel tentativo di scoprire le mie origini…» Si interruppe, esaminando di nuovo quello strano volto fisso nel suo, bello di una bellezza tenebrosa, che lo scrutava al bagliore del falò. «Volete dirmi il vostro nome?»

«Kerrel» rispose l’uomo lentamente. «Vi chiedo scusa. La somiglianza è davvero impressionante. Vi ho preso per uno della mia famiglia.»

Trehearne corrugò le sopracciglia. «Kerrel?» ripeté, e scosse il capo. «I miei si chiamavano Cahusac prima di trasferirsi in Comovaglia.»

«Senza dubbio esisteva una parentela» disse Kerrel con noncuranza. Improvvisamente fece un cenno a indicare la radura che si stendeva davanti a loro: «Guardate, danno inizio alla cerimonia finale.»

Il grande falò andava spegnendosi. I contadini e i pescatori, un centinaio circa, si stringevano in cerchi intorno all’ondeggiante bagliore delle fiamme. Un vecchio dalla barba bianca incominciò a pregare nel rozzo gaelico bretone.

Trehearne volse appena il capo. La sua mente era assorta nel pensiero dello straniero e di tutte le cose che l’avevano oppresso e turbato e perseguitato fin dall’infanzia, gli inquietanti piccoli misteri intorno alla sua persona dei quali ora forse avrebbe trovato la chiave.

Guardò solo per un secondo, seguendo il gesto del braccio di Kerrel. Ma quando si rigirò, Kerrel se n’era andato.

Trehearne si mosse di qualche passo senza una meta, in cerca dello straniero ma egli si era dileguato nel buio e tra la folla, e Trehearne si fermò, sentendosi giocato e furibondo.

La sua indole provata dalle dure vicende di un’esistenza infelice si rivoltava scoprendo gli artigli. Era sempre stato sensibile alle offese come un fanciullo. Se avesse potuto mettere le mani su quell’insolente di Kerrel l’avrebbe percosso a morte. Rivolse di nuovo l’attenzione allo svolgersi della cerimonia, cercando di controllarsi come aveva faticosamente imparato, rendendosi conto di essere ridicolo. Ma il suo viso, così simile a quello dello straniero scomparso si piegava agli angoli della bocca in una smorfia crudele.

I bretoni avevano incominciato a sfilare in processione intorno al fuoco che andava estinguendosi. Bassi uomini tarchiati dalle giubbe variopinte e dai cappelli dall’ampia tesa, donne vigorose in grembiule e lunghe gonne, le inverosimili cuffie inamidate fluttuanti di nastri e trine. Gli zoccoli calpestavano pesantemente il terreno pietroso. Avrebbero girato tre volte intorno alle braci in direzione del sole e poi, solennemente, ciascuno avrebbe raccolto una pietra e altrettanto solennemente l’avrebbe gettata fra i carboni ardenti. E quindi sarebbero corsi a raccogliere i tizzoni carbonizzati e li avrebbero portati a casa come talismani contro la febbre, il fulmine e le malattie del bestiame fino alla prossima vigilia di mezza estate.

Trehearne fu colpito dal fatto che la maggior parte di essi, fatta eccezione dei più vecchi, appariva penosamente consapevole dei propri atti. Vinto dal cattivo umore, era sul punto di andarsene. Fu allora che vide la ragazza.

Stava a una decina di passi da lui, in prima fila tra la folla che si era disposta a semicerchio. Ella aveva voluto che la guardasse. Faceva oscillare una borsetta bianca, come un pendolo pigro dalla lunga cinghia e il suo sguardo era fisso su di lui. Sorrideva con un’aria di sfida.

Ai riflessi delle braci ardenti, Trehearne la riconobbe come una della stirpe di Kerrel; della sua stirpe quale che fosse. Ma non fu questo che gli fece sobbalzare il cuore nel petto: fu la sua persona.

La luce rossa dorata danzava su di lei e forse era solo quel bagliore misterioso che la faceva sembrare qualcosa di più che una graziosa ragazza vestita di bianco. Solo una magia del vento e della luce delle stelle, forse, faceva sì che Trehearne vedesse in lei una creatura fatata, luminosa, bella, malvagia e saggia e non più umana di Lilith. La ragazza gli fece un cenno, un piccolo imperioso movimento del capo. L’ira assopita in lui in quel momento si risvegliò. Prese a camminare verso di lei, aprendosi un varco tra la folla, alto, splendidamente eretto, forte, con nel volto il segno di quella strana, malvagia bellezza, gli occhi gialli come il fuoco e come il fuoco ardenti. Ella vide che era in collera e rise.

Se fosse lo squillare del suo riso che attrasse l’attenzione dei bretoni o se si trattasse di uno sguardo casuale, Trehearne non lo seppe mai. Le si avvicinò ed ella disse: «Anch’io sono una Kerrel. Volete parlarmi?»

Stava per rispondere quando si accorse che il ritmico battere degli zoccoli si era arrestato e che la folla dei turisti guardava fissamente verso di lui e la ragazza e poi, oltre loro, ai bretoni. Udì un concitato mormorio di domande in francese e in inglese, e alle sue spalle un gran silenzio.

Si girò. Il cerchio rituale si era spezzato. Il vecchio che aveva pregato, avanzava verso di loro e con lui uomini e donne, spinti, come da una forza irresistibile, a rompere l’ordine della processione. Erano tutti vecchi, dalle facce avvizzite e solcate dal trascorrere di molti inverni, e nei loro occhi vide la scintilla di un odio antico, l’ombra di un antico timore.

Aveva sorpreso lo stesso sguardo fisso su di lui tra i vecchi contadini di Cornovaglia.

Il vecchio alzò la mano. Si fermò a pochi passi di distanza e gli altri con lui. Vi era qualcosa di estremamente minaccioso nel blocco compatto di quella piccola folla, la sopravvivenza di un mondo più antico. La ragazza sollevò la testa con noncuranza e rise, ma Trehearne non se la sentiva di ridere. Il vecchio li maledisse.

Trehearne non conosceva una sola parola di gaelico, ma non era necessario sapere la lingua. Né aveva bisogno di spiegazione l’irato gesto di congedo. I bretoni avevano già raccolto le pietre dal fuoco. Ancora un attimo e le avrebbero scagliate contro di lui e la ragazza.