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Estraven aveva attraversato questa regione, tenendosi il cappuccio ben calato sul viso, per nascondere i suoi lineamenti. Aveva paura di essere riconosciuto, qui. Ma non c'era bisogno, forse, di tante precauzioni; ci voleva un occhio molto acuto per riconoscere Harth rem ir Estraven nel magro viandante logorato dall'inverno, Thessicher continuava a fissarlo, nascostamente, perché evidentemente non riusciva a credere che lui fosse quel che diceva di essere.

Thessicher ci fece entrare, e la sua ospitalità era degna di quella della regione, benché i suoi mezzi fossero assai piccoli. Ma si comportava con disagio, con noi, era inquieto per la nostra presenza, avrebbe preferito non averci là. Era comprensibile; lui rischiava la confisca della sua proprietà, dandoci riparo. Poiché lui doveva quella proprietà a Estraven, e in quel momento avrebbe potuto trovarsi senza niente, come noi, se Estraven non avesse provveduto alle sue necessità, non sembrava ingiusto chiedergli di correre qualche rischio, in cambio. Il mio amico, però, chiese il suo aiuto non per ricambiare quanto era stato dato, ma per una questione di amicizia, contando non sull'obbligo di Thessicher, ma sul suo affetto. E infatti Thessicher si sgelò, dopo che il suo allarme fu passato, e con tipica volubilità karhidi diventò nostalgico ed espansivo, ricordando i vecchi tempi e le vecchie conoscenze insieme a Estraven per quasi tutta la notte, accanto al focolare. Quando Estraven gli domandò se non avesse qualche idea sul luogo in cui trovare un nascondiglio, qualche fattoria deserta o isolata, dove un uomo bandito dal regno avrebbe potuto nascondersi per un mese o due, nella speranza di una revoca del suo esilio, Thessicher disse immediatamente:

— Restate con me.

Gli occhi di Estraven s'illuminarono a queste parole, ma egli rifiutò; e dichiarandosi d'accordo sul fatto che il mio amico non sarebbe stato molto sicuro, così vicino a Sassinoth. Thessicher promise di trovargli un nascondiglio. Non sarebbe stato difficile, disse, se Estraven avesse assunto un nome falso e si fosse fatto assumere come cuoco o agricoltore, una cosa forse non piacevole, ma certamente migliore di un ritorno in Orgoreyn.

— Cosa diavolo faresti in Orgoreyn? Di che cosa vivresti, eh?

— Nella Commensalità — disse il mio amico, con una lieve traccia di quel suo sorriso da lontra, — forniscono un lavoro a tutte le Unità, sai. Non ci sarebbero problemi. Ma preferirei restare in Karhide… se tu pensi davvero che la cosa possa essere risolta…

Avevamo tenuto la stufa Chabe, l'unica cosa di qualche valore che ci era rimasta. La fedele stufa ci servì, in un modo o nell'altro, fino al termine del nostro viaggio. Il mattino dopo il nostro arrivo alla fattoria di Thessicher, presi la stufa e, con gli sci, discesi in città. Estraven naturalmente non venne con me, ma mi aveva spiegato quel che dovevo fare, e tutto andò bene. Vendetti la stufa al Commercio della Città (ogni Dominio ha il suo Commercio, che può essere paragonato, sia pure in un'accezione più vasta, a quello che noi conosciamo come un Mercato), con una punta di rincrescimento, poi presi la bella somma di denaro che avevo ricavato, e risalii la collina, giungendo al piccolo collegio dei Mestieri e delle Professioni, dove si trovava la stazione radio, e acquistai dieci minuti di «trasmissione privata per ascolto privato». Tutte le stazioni tenevano un certo periodo di tempo, durante la giornata, per simili trasmissioni private a onde corte; poiché quasi tutte venivano fatte da mercanti ai loro agenti d'oltremare, o ai loro clienti, nell'Arcipelago, a Sith, o a Perunter, il costo è piuttosto alto, ma non irragionevole. Minore, in ogni caso, del costo di una stufa Chabe di seconda mano. I miei dieci minuti sarebbero stati l'inizio della Terza Ora, quel pomeriggio. Non volevo sciare avanti e indietro per tutta la giornata, dalla fattoria di Thessicher in città e così via, così rimasi a vagabondare per Sassinoth, e a poco prezzo consumai una buona e abbondante colazione in una delle taverne. Senza dubbio la cucina karhidi era migliore di quella Orgota. Mangiando, ricordai il commento di Estraven a questo riguardo, quando gli avevo chiesto se odiava Orgoreyn; ricordai la sua voce, la notte prima, quando aveva detto in tono blando, tranquillo: «Preferirei restare in Karhide…» E mi domandai, non per la prima volta, che cosa fosse il patriottismo, in che cosa consistesse realmente l'amore per il proprio paese, da dove e come sorgesse quella lealtà struggente che aveva fatto tremare la voce del mio amico: e come un amore così vero potesse diventare, troppo spesso, una cosa bigotta tanto stupida e meschina e volgare. In quale punto, in quale momento ciò che è giusto diventa sbagliato, ciò che è sano diventa malato? era questa la mia domanda, in quel momento.

Dopo colazione, continuai le mie peregrinazioni per Sassinoth. L'operosità della città, i negozi e i mercati e le strade, piene di animazione malgrado la neve e la temperatura gelida, tutte queste cose mi parevano un gioco, irreale, che stordiva. Non ero ancora uscito dalla solitudine del Ghiaccio. Ero a disagio, in mezzo a gente estranea, e sentivo costantemente la mancanza di Estraven, accanto a me.

Salii la strada nevosa della collina quando già le ombre del crepuscolo stavano calando intorno, raggiunsi il Collegio e là venni istruito sul modo di usare la trasmittente. Al momento stabilito lanciai il segnale di risveglio al satellite-relé, che si trovava in un'orbita fissa a circa 500 chilometri di altezza, sopra la regione meridionale di Karhide. La presenza di quel satellite artificiale era una forma di assicurazione contro i rischi di una situazione come quella nella quale mi trovavo ora, dopo avere perduto il mio ansible, e perciò nell'impossibilità di segnalare a Ollul la necessità di trasmettere l'ordine all'astronave in orbita solare, e trovandomi privo di attrezzatura, o senza il tempo materiale, di stabilire un diretto contatto con l'incrociatore siderale. La trasmittente di Sassinoth era più che adeguata per questa necessità, ma poiché il satellite non era attrezzato che per la ritrasmissione di un segnale all'astronave, non potei far altro che lanciare l'ordine e fermarmi a quel punto. Non potevo sapere se il messaggio fosse stato ricevuto, e ritrasmesso all'astronave. Non sapevo se avevo fatto bene a lanciarlo. Ero giunto ad accettare queste incertezze con serenità.

Aveva cominciato a nevicare con forza, e fui costretto a passare la notte in città, non conoscendo le strade a sufficienza per percorrerle da solo, al buio e sotto la tormenta. Essendomi rimasto un po' di denaro, domandai un consiglio sulla locanda più vicina; a questa domanda, insistettero affinché io passassi la notte al Collegio; cenai con una banda di studenti chiassosi e allegri, e dormii in uno dei dormitori. Mi addormentai pervaso da un piacevole senso di sicurezza, la sicurezza della straordinaria e infallibile ospitalità di Karhide per gli stranieri. Ero disceso nel paese giusto la prima volta, e adesso ero ritornato. Così mi addormentai, e mi svegliai prestissimo, il mattino dopo, partendo subito per la fattoria di Thessicher, prima di colazione, avendo passato una notte inquieta, piena di sogni e di bruschi risvegli.

Il sole che sorgeva, piccolo e freddo in un cielo limpido, gettava delle ombre a occidente, traendole da qualsiasi gibbosità che interrompeva la bianca coltre nevosa. La strada era tutta un disegno di bianco e di nero. Nessuno si muoveva in quei grandi campi di neve; ma lontano, lontano, sulla strada, una piccola, minuscola figura venne verso di me, con l'andatura morbida, sinuosa dello sciatore. Molto tempo prima di poter vedere il viso, capii che si trattava di Estraven.

— Che succede, Therem?

— Devo arrivare alla frontiera — mi disse, senza neppure fermarsi, quando ci incontrammo. Era già senza fiato. Mi voltai, e andammo entrambi a ovest, e io faticai per non perdere contatto da lui. Dove la strada girava, per dirigersi a Sassinoth, lui la lasciò, attraversando veloce i campi biancheggianti, che non avevano recinti. Attraversammo l'Ey ghiacciato a circa un miglio dalla città, a nord. Le rive erano ripide, e alla fine dell'ascesa fummo entrambi costretti a fermarci e a riprendere fiato. Non eravamo nella condizine di compiere una corsa cosi affannosa.