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«Colpite! Colpite con tutte le vostre forze finché potete farlo!» gridò a gran voce.

Gli schiavi si riversarono gridando sui soldati, armati di pezzi di tavolato, delle loro catene, e dei loro pugni, e i soldati si prepararono a sostenere il loro attacco. Carse, con la sua frusta e il suo pugnale, Jaxart, che urlava la parola ’Khondor!’ come un grido di battaglia, corpi seminudi contro le armature di maglia di ferro, la forza della disperazione contro la forza della disciplina. I Nuotatori scivolavano come ombre brune nella mischia, e lo schiavo dalle ali mozzate brandiva una spada, trovata chissà come. I marinai vennero a dare man forte ai soldati, ma dalla scaletta orde di lupi famelici continuavano a riversarsi sul ponte.

Dal castello di prua e dalla piattaforma del timoniere, gli arcieri cominciavano a prendere la mira, ma dopo avere scagliato poche frecce furono costretti a fermarsi, perché la mischia si era fatta così confusa e serrata che esisteva il pericolo a ogni colpo, di uccidere uno dei propri uomini. L’odore dolciastro del sangue si levò nell’aria, venne preso dal vento e portato intorno, come un’impalpabile nube che ammorbava l’aria. I ponti cominciarono ad arrossarsi, ed erano viscidi, là dove le mischie infuriavano, e il sangue scorreva intorno copioso. E poi, gradualmente, la forza superiore, e la superiore disciplina, dei soldati di Ywain, cominciarono a prevalere. Carse vide che i soldati avevano formato dei nuclei di difesa, e che iniziavano il contrattacco, respingendo lentamente i prigionieri ribelli; e tra le file degli schiavi, il numero dei caduti aumentava spaventosamente.

Allora, in un impeto furibondo, il terrestre corse verso la cabina. Certamente i Sark dovevano avere trovato strano il fatto che la loro principessa e il loro capitano non fossero apparsi sul ponte, a guidarli, ma l’attacco era stato troppo improvviso, e la mischia troppo furibonda, perché i soldati avessero potuto riflettere su altri problemi, all’infuori di quello di sopravvivere e vincere il nemico. Carse cominciò a picchiare furiosamente sulla porta della cabina, gridando il nome di Boghaz.

Il Valkisiano sollevò la sbarra, e Carse entrò nella cabina.

«Porta quella sgualdrina sulla piattaforma del timoniere,» ansimò. «Ti aprirò io la strada.»

Prese dal tavolino la spada di Rhiannon, la impugnò, e uscì di nuovo dalla cabina, seguito da Boghaz, che portava tra le braccia Ywain prigioniera.

La scaletta era a meno di due passi dalla porta. Gli arcieri erano discesi, per unirsi ai loro compagni impegnati in una furibonda serie di corpo a corpo, e sulla piattaforma non c’era nessuno, all’infuori del terrorizzato marinaio Sark che si aggrappava alla ruota del timone come se fosse stata un’ancora di salvezza. Carse, mulinando la grande spada, si aprì un varco, e presidiò la scaletta, mentre Boghaz saliva, con un’agilità insospettabile in un uomo così grasso, e, una volta giunto sulla piattaforma, metteva diritta Ywain, in modo che fosse visibile da tutti coloro che si trovavano in basso.

«Guardate!» gridò allora Carse, ai piedi della scaletta. «Ywain è in nostra mano!»

Ma in realtà, non c’era bisogno che egli lo dicesse. La vista della principessa, legata e imbavagliata, nelle mani di uno schiavo, fu come un terribile colpo inferto ai soldati, e come una pozione magica per i ribelli. Un gemito di disperazione e un urlo possente di esultanza si mescolarono, dai ponti insanguinati, e salirono al cielo.

Qualcuno trovò il cadavere di Scyld, e lo trascinò sul ponte. Vedendo che il loro capitano era morto, ed era tenuto alto dai ribelli, in modo che tutti potessero vedere, i soldati e i marinai di Sark, privi dei loro capi, persero ogni coraggio. Le sorti della battaglia si capovolsero repentinamente, allora, e gli schiavi non esitarono ad approfittare del loro vantaggio.

Era la spada di Rhiannon a guidarli, fendendo gli stendardi che portavano il drago di Sari:, e facendoli cadere come stracci dall’albero maestro. E sotto la scintillante lama caddero molti nemici, e infine cadde anche l’ultimo soldato di Sari:.

D’un tratto, ogni movimento cessò, e ci fu una pausa di silenzio, uno strano, profondo silenzio che incombeva solenne sulla nave conquistata. La nera galera galleggiava, sospinta dalla brezza, rollando e beccheggiando dolcemente sul bianco mare increspato. Il sole era già basso sull’orizzonte. Esausto, Carse salì fino alla piattaforma del timoniere.

Ywain, sempre stretta tra le braccia di Boghaz, seguiva ogni suo movimento, con occhi fiammeggianti di collera infernale.

Carse raggiunse l’estremità della piattaforma, e si fermò, appoggiandosi alla spada. Gli schiavi, esausti per la violenza della battaglia, e inebriati dai fumi deliziosi della vittoria, si erano radunati sul ponte inferiore, come un anello di lupi ansanti dopo una caccia felice.

Jaxart, che era andato a ispezionare le cabine, uscì dall’ultima di esse. Avanzò sul ponte, agitando la spada rossa di sangue verso Ywain, e gridando:

«Un degno amante teneva nascosto nella sua cabina! Il figlio di Caer Dhu, il fetido Serpente!»

La reazione degli schiavi a quelle parole fu immediata. D’un tratto essi parvero dimenticare la gioia della vittoria, la stanchezza della battaglia. D’un tratto essi parvero pervasi da un nuovo terrore, da un’angoscia tremenda, e si fecero più vicini gli uni agli altri, spauriti, malgrado il loro grande numero, anche solo nell’udire quel nome terribile e odiato. Carse riuscì a fatica a farsi udire.

«Non abbiate paura. Il Serpente è morto! Jaxart… vuoi ripulire la nave?»

Prima di obbedire, Jaxart si fermò, e lanciò uno sguardo bizzarro a Carse.

«Come hai fatto a sapere che è morto?» domandò.

«Sono stato io a ucciderlo,» rispose Carse.

Tutti gli uomini lo guardarono, allora, con espressioni nuove e attonite, e nei loro occhi c’era un grande timore, come se egli fosse stato un essere sovrumano, e non un loro compagno. Tra le file dei ribelli si diffuse un mormorio, una voce che crebbe tutt’intorno, soffocata dall’eco lontano di ima oscura paura.

«Egli ha ucciso il Serpente!…»

Accompagnato da un altro uomo, Jaxart entrò di nuovo nella cabina, e portò fuori il cadavere. Un pesante silenzio cadde allora sul ponte. Nessuno parlò, e molti trattennero il respiro. La piccola folla si aprì, facendo ala al passaggio, scostandosi fino a creare un ampio corridoio, attraverso il quale i due portatori del cadavere passarono lentamente, avvicinandosi al parapetto della nave. Anche nella morte, il nero corpo informe, avvolto dal pesante mantello, il corpo senza volto, celato dal cappuccio nero come il mantello, era il simbolo del male, di un orrore antico e senza nome.

Carse dovette lottare nuovamente contro quella paura gelida e repellente, e contro quell’impeto di collera strana. Con uno sforzo di volontà, si costrinse a guardare.

Nell’immobilità del crepuscolo, il tonfo che il cadavere fece, cadendo, risuonò sorprendentemente alto e sinistro. Nel mare di fiamma bianca, ondulati cerchi concentrici di fiammelle guizzanti si formarono, e si spensero lontano, confondendosi con la bianca distesa.

Allora gli uomini ricominciarono a parlare. E cominciarono a gridare frasi oscene e offensive all’indirizzo di Ywain, minacciandola e schernendola in ogni maniera. Qualcuno chiese a gran voce il sangue della principessa, e molti si sarebbero avventati su per la scaletta, decisi a torturarla orribilmente e a ucciderla, se Carse non li avesse minacciati, con la grande spada sguainata, ergendosi come un difensore davanti alla scaletta.

«No! È il nostro ostaggio, e vale tanto oro quanto pesa!» gridò.

Non spiegò in qual modo avrebbe potuto usare la principessa, né entrò in particolari, ma sapeva che quelle argomentazioni sarebbero state sufficienti a soddisfarli, almeno per il momento. E per quanto egli potesse odiare Ywain, detestava l’idea di vederla torturare e fare a pezzi da quel branco di belve feroci, che poco o nulla avevano di umano.