Cercò di spostare su un altro argomento l’attenzione dei ribelli.
«Ora che abbiamo vinto e la nave è nostra, dobbiamo eleggere un capo. Chi scegliete?»
C’era una sola risposta possibile, a questa domanda. Il nome di Carse salì al cielo, urlato dai ribelli, ripetuto fino ad assordarlo, e Carse, nell’udire il suo nome scandito come un grido di battaglia, fu pervaso da un senso di esultanza, da una gioia selvaggia che per qualche istante lo inebriò completamente. Dopo quei giorni di umiliazione e di tormento, era meraviglioso sapere di essere di nuovo un uomo libero, un uomo vero, perfino in un mondo alieno e minaccioso.
Gridò, per dominare il tumulto, e quando riuscì a farsi udire, disse:
«Va bene! Adesso, ascoltatemi! I Sark ci uccideranno lentamente, tra le più atroci torture, per quello che abbiamo fatto… se ci prenderanno. Così, ascoltate bene il mio piano! Noi ci uniremo ai liberi naviganti, ai Re del Mare che regnano a Khondor!»
Tutti accettarono fino all’ultimo uomo, senza un attimo di esitazione, e il nome di Khondor risuonò alto nel cielo del crepuscolo.
I Khond che si trovavano tra gli schiavi parevano impazziti, in preda a una selvaggia esultanza. Uno di loro strappò una lunga striscia di stoffa gialla dalla tunica di un soldato morto che giaceva scompostamente sul ponte, e ne fece una bandiera, che issò sul pennone dove fino a poco prima aveva sventolato lo stendardo col drago di Sark.
Obbedendo all’ordine di Carse, subito Jaxart assunse il comando della nuova ciurma della galera, e Boghaz riportò in cabina Ywain, e ve la rinchiuse, Gli uomini si dispersero per tutta la galera, ansiosi di liberarsi dei cerchi di ferro che ancora stringevano i loro polsi, o delle catene che ancora appesantivano i loro movimenti, ansiosi di depredare i cadaveri dei soldati, prendendo i loro abiti e le loro armi, e ancor più ansiosi di tuffarsi negli otri di vino. Solo Naram e Sballali rimasero, con i grandi occhi fissi su Carse, negli ultimi chiarori del tramonto.
«Voi non siete d’accordo?» domandò Carse.
Negli occhi di Shallah ardeva quella stessa luce strana, soprannaturale, che il terrestre già vi aveva visto una volta.
«Tu sei uno straniero,» disse lei, con voce sommessa e dolce, «Straniero per noi, e straniero per il nostro mondo. E ripeto che posso avvertire in te un’ombra oscura, un’ombra che mi fa paura, perché tu la porterai con te ovunque tu vada.»
Poi gli voltò le spalle, e Naram disse:
«Ora noi ritorniamo a casa.»
I due Nuotatori rimasero fermi, immoti, per un breve momento, sul basso parapetto. Ora essi erano liberi, liberi delle loro catene, e i loro corpi erano pervasi da una gioia intensa, una gioia così grande che quasi faceva male. Si inarcarono per un momento, tesi, sicuri, gioiosi, e svanirono al di là del parapetto.
Dopo un momento, Carse li rivide. Saltavano e s’immergevano gioiosi, come delfini, s’inseguivano e si superavano scherzosamente, si chiamavano con quelle loro voci limpide e dolci, sollevando dalle onde spruzzi di pura fiamma, traendo riverberi colorati dalla grande distesa bianca che giungeva al lontano, cupo orizzonte.
Deimos era già alto nel cielo della sera; gli ultimi chiarori del crepuscolo erano già svaniti, e Fobos apparve a oriente, come una nuova, luminosa scintilla, e cominciò la sua veloce scalata della grande, tenebrosa cupola del cielo notturno. Il mare si trasformò in una distesa di liquido argento. I Nuotatori si allontanarono veloci e sicuri, verso occidente, seguiti da due lunghe scie di fuoco, una traccia di argenteo scintillare che si fondeva in luce liquida e impallidiva poco a poco.
La galera nera faceva rotta per Khondor, con tutte le vele spiegate e turgide, giganti oscuri nello sfondo liquido del cielo notturno. E Carse rimase dov’era, ritto sulla piattaforma, con la spada di Rhiannon stretta tra le mani.
Capitolo X
I RE DEL MARE
Carse era appoggiato al parapetto, e stava guardando il mare, immensa distesa che lambiva il lontano orizzonte, quando giunsero i Celesti. Tempo e distanza erano ormai dietro le loro spalle e dietro la galera, come una lunga scia che seguiva la nave. E in quel periodo, Carse aveva potuto riposare. Ora indossava tin gonnellino pulito, e una nuova tunica, si era lavato e sbarbato, e ormai le ferite si erano rimarginate, sulla schiena e nel resto del corpo. Era ritornato padrone degli ornamenti che gli erano stati rubati, prima da Boghaz e poi da Scyld, e l’elsa della lunga spada sfavillava, con il suo fantastico gioiello, sopra la sua spalla sinistra.
Boghaz, in quel momento, era accanto a lui. Boghaz era sempre al silo fianco, dovunque egli andasse, in qualsiasi punto della nave si trovasse. Il grasso Valkisiano puntò il braccio verso il cielo occidentale, ed esclamò:
«Guarda lassù!»
Dapprima, Carse pensò che in lontananza fosse apparso un gran volo di uccelli, forse uno stormo che migrava al di sopra delle acque. Ma poi, mano a mano che si avvicinarono, diventarono sempre più grandi, e infine egli capì che si trattava di uomini, o meglio di quasi-umani, Halfling della stessa specie dello schiavo dalle ali mozzate.
Ma quelli non erano degli schiavi, e le loro ali erano spiegate, ampie e splendide e luminose, nei raggi gloriosi del sole, che pareva trarre da esse scintillii e lucori incantati. I loro corpi snelli, completamente nudi, erano lucenti come avorio levigato. E mentre sfrecciavano veloci nell’azzurro, scendendo verso la nave, parvero agli occhi di Carse di un’incredibile bellezza, una bellezza che le semplici parole e i semplici concetti umani non avrebbero mai saputo descrivere.
C’era un’affinità tra quelle splendide creature del cielo e i Nuotatori. I Nuotatori erano i perfetti figli del mare, e questi esseri erano fratelli del vento e della nube e delle limpide, profonde immensità del cielo. Era come se la mano maestra di un divino scultore li avesse foggiati entrambi, Nuotatori e Celesti, traendoli dai rispettivi elementi originari, modellandoli in sembianze di forza e grazia che li liberavano da ogni impaccio terreno degli esseri umani, legati alla terra e lenti e pesanti per il contatto con essa; perché l’ignoto artefice aveva fatto di loro dei sogni meravigliosi, materializzati in carne e sangue e felicità.
Jaxart, che in quel momento era al timone, gridò:
«Esploratori da Khondor!»
Carse salì sulla piattaforma. Gli uomini si radunarono sul ponte, seguendo con lo sguardo la discesa dei quattro Celesti che fendevano l’aria con le loro grandi ali.
Carse guardò verso prua, dove Lorn, lo schiavo alato, se ne stava in solitudine, ormai da giorni, cupo e triste e pensieroso, senza rivolgere la parola a nessuno, guardando il cielo e pensando forse alla perduta libertà delle sue ali mozzate. Ma ora il Celeste era in piedi, diritto e orgoglioso, e uno dei quattro uomini alati venuti dal cielo si posò accanto a lui.
Gli altri si posarono invece sulla piattaforma, ripiegando le ali luminose con un intenso fruscio.
Salutarono Jaxart, chiamandolo per nome, e poi guardarono con palese curiosità la lunga galera nera, e la ciurma di uomini duri e feroci che la governava; ma la loro curiosità si fissò soprattutto, e palesemente, su Carse. C’era qualcosa, in quel loro sguardo penetrante, che ricordò al terrestre gli occhi di Shallah, e quel pensiero gli diede una bizzarra inquietudine, uno strano, prolungato brivido senza un vero motivo.
«Questo è il nostro capo,» disse Jaxart. «Un barbaro che viene di lontano, da regioni selvagge e sconosciute di Marte, ma anche un uomo valoroso, e pronto di spirito e d’ingegno. Certo i Nuotatori vi avranno raccontato tutto, vi avranno narrato in qual modo egli si sia impadronito, allo stesso tempo, della nave e di Ywain di Sark.»
«Sì.» Essi si rivolsero a Carse, e lo salutarono, con espressione grave e solenne.
Il terrestre disse:
«Jaxart mi ha detto che tutti coloro che combattono Sark possono vivere da uomini liberi, nella libertà di Khondor. Io chiedo di potere esercitare questo diritto.»