Carse aveva creduto alle sue parole. Si accordavano perfettamente con ciò che Jaxart gli aveva detto… e cioè che i Dhuviani custodivano gelosamente le loro armi scientifiche, tenendole segrete anche per i loro alleati, i Sark.
«E inoltre,» aveva aggiunto Ywain, con aperta ironia, «Perché mai dovrebbe interessarti la scienza Dhuviana, se tu possiedi la chiave della scienza infinitamente superiore che è celata nella tomba di Rhiannon?»
«È vero, io possiedo quel segreto,» aveva risposto Carse, e questa risposta aveva cancellato dal volto di Ywain ogni traccia d’ironia.
«Che cosa intendi farne?» aveva chiesto, dopo un breve silenzio.
«Su questo punto, almeno, ho idee ben chiare,» aveva risposto Carse, in tono minaccioso. «Qualunque possa essere il potere che la Tomba di Rhiannon potrà darmi, me ne servirò per combattere Sark e Caer Dhu… e spero che sia sufficiente a distruggere anche l’ultima pietra della tua città!»
Ywain aveva annuito.
«Una buona risposta. E ora… che ne sarà di me? Intendi forse frustarmi, e incatenarmi al remo? O vuoi uccidermi qui?»
Lentamente, Carse aveva scosso il capo, rispondendo alla sua ultima domanda.
«Se avessi voluto farti uccidere subito, avrei dovuto soltanto permettere ai miei lupi di farti a pezzi.»
Lei aveva scoperto i denti, per un momento, in quello che era stato un pallido sorriso.
«Sarebbe stata una misera soddisfazione, per te. Non certo paragonabile a quella che potresti ottenere, uccidendomi con le tue mani.»
«Anche questo avrei potuto farlo, qui, in questa stessa cabina.»
«E infatti hai tentato, ma non l’hai fatto. Bene… e allora?»
Carse non le aveva risposto. In quel momento aveva capito che, qualunque cosa avesse potuto farle, lei lo avrebbe sempre schernito, orgogliosa e beffarda, fino all’ultimo. In quella donna c’era un orgoglio d’acciaio.
Ma lui aveva lasciato un marchio indelebile su di lei, un marchio che neppure il suo orgoglio avrebbe potuto cancellare. La cicatrice che portava sulla guancia sarebbe guarita, e sarebbe impallidita, col tempo, ma non sarebbe mai scomparsa. Ywain non avrebbe mai potuto dimenticarlo, fino a quando fosse rimasta viva. E aveva provato una cupa soddisfazione, una gioia oscura e sorda, al pensiero di averle lasciato quel marchio.
«Non mi rispondi?» aveva detto lei, beffarda. «Per essere un conquistatore, sei molto indeciso!»
Irato, Carse aveva girato intorno al tavolino, per avvicinarsi a lei. Non le aveva risposto neppure allora, perché ancora non aveva trovato in sé una risposta. Ma aveva saputo soltanto di odiarla, come non aveva mai odiato nessuno in vita sua. Si era chinato su di lei, mortalmente pallido, con le mani aperte, avide.
Ywain era balzata in piedi, subitaneamente, e con le mani ad artiglio gli aveva cercato la gola. Le dita della donna erano state forti come l’acciaio, e le unghie erano affondate nella carne del terrestre.
Allora Carse le aveva afferrato i polsi, piegandoli selvaggiamente, per staccare quelle unghie dalla sua gola, e i muscoli delle braccia si erano tesi come corde, per combattere la forza incredibile di quella donna. Lei aveva lottato contro il terrestre, pervasa da una furia indomabile, e dalla forza della disperazione e dell’orgoglio, in silenzio, e poi, d’un tratto, aveva ceduto, rimanendo inerte e passiva. Aveva socchiuso le labbra, come per respirare meglio, e improvvisamente Carse le aveva chiuso la bocca con la sua.
Non c’era stato amore, né tenerezza, in quel bacio. Era stato un gesto di disprezzo virile, brutale e pieno d’odio. Eppure, per uno strano, breve momento, Ywain era rimasta passiva, accettando quel bacio… e poi aveva affondato i bianchi denti aguzzi nel labbro inferiore dell’uomo, mordendolo crudelmente, e la bocca di Carse si era riempita del sapore dolciastro e amaro del sangue, e lei aveva riso, una risata crudele, ironica, sprezzante.
«E ora, lurido barbaro,» aveva bisbigliato, «Anch’io ho impresso il mio marchio su di te.»
Carse era rimasto immobile a fissarla, per un lungo momento. Poi aveva alzato le braccia, e aveva brutalmente afferrato Ywain per le spalle, e la sedia era caduta, con un sordo fragore, dietro a lei, per la violenza del gesto.
«Avanti!» gli aveva detto lei, ansando. «Avanti, se ti fa piacere!»
Avrebbe voluto spezzarla con le sue mani. Avrebbe voluto…
L’aveva scostata da sé, con violenza, mandandola a sbattere contro la parete, e poi era uscito, e da quel momento non aveva più varcato la soglia della cabina.
E ora, stava accarezzando la cicatrice ancora fresca sul suo labbro, e osservava Ywain, che saliva sul ponte insieme a Boghaz. Si teneva diritta, nel suo usbergo gemmato, orgogliosamente eretta, come una regina, ma le linee intorno alla sua bocca erano più profonde, e gli occhi, malgrado tutto il suo amaro orgoglio, erano tristi.
Carse non andò da lei. Ywain fu lasciata sola con il suo guardiano, e Carse continuò a fissarla, nascostamente. Era così facile immaginare i pensieri che si agitavano nella sua niente. Lei sfava pensando a ciò che si provava stando sul ponte della propria nave, come una prigioniera. Lei stava pensando che quella cupa, dirupata costa che appariva lontano, davanti alla nave, era il simbolo della fine di tutti i suoi viaggi. Lei stava pensando che ormai era giunto il momento di morire.
E allora, dall’albero maestro, venne un grido acuto, gioioso.
«Khondor!…»
Dapprima, Carse poté vedere soltanto una grande rupe scoscesa, che torreggiava altissima sulle onde bianche, simile a un promontorio che sporgeva tra due fiordi. Poi, da quella rocca apparentemente spoglia, impervia e inabitabile, si levò un gran volo di Celesti, che si avvicinarono battendo le grandi ali nel vento, in così gran numero che l’aria parve pulsare di quel possente battito d’ali. E vennero anche i Nuotatori, come uno sciame di piccole comete che lasciavano una lunga coda di fiamma bianca sulle acque ondulate. E dall’imboccatura dei fiordi uscirono delle lunghe navi, più piccole e più snelle della galera, veloci come creature marine, con le fiancate protette da grandi scudi.
Il viaggio era finito. La nera galera di Sark venne scortata a Khondor, tra alte grida e acclamazioni.
E ora, Carse poteva comprendere il senso delle parole di Jaxart. La natura aveva costruito, con quello scoglio, una fortezza virtualmente inespugnabile, una fortezza difesa da ogni attacco proveniente dalla terraferma da una muraglia di invalicabili montagne, e difesa da ogni attacco proveniente dal mare da una scogliera proibitiva e inaccessibile, e con una sola via d’accesso, costituita dallo stretto fiordo tortuoso che si apriva a nord. E anche quell’apertura era protetta da grandi baliste, che avrebbero trasformato il fiordo in una trappola mortale per qualsiasi nave nemica vi si fosse avventurata.
Il canale tortuoso si allargava, alla fine, in una rada chiusa, protetta dalla roccia e dalla terra, un porto sicuro, che neppure il vento poteva attaccare. Le navi pirate dei Khond, i battelli da pesca, e una varietà d’imbarcazioni di provenienza straniera, riempivano il bacino, e la nera galera da guerra scivolò in mezzo a loro come una regina, verso l’ormeggio.
I moli e le scalinate ripidissime che portavano in alto, sulla sommità della rocca, ed erano unite grazie a gallerie coperte con la parte superiore della città, brulicavano di folla… c’era tutta la popolazione di Khondor, e c’erano le tribù alleate che avevano chiesto e trovato rifugio presso i Khond. Erano gente dall’aspetto rude e violento, dai corpi forti e solidi, e piacquero subito a Carse. Gli scogli e le montagne riecheggiavano delle loro alte grida di saluto e delle loro acclamazioni, che rimbalzavano tra le rocce impervie con la potenza del tuono.
Protetto da quel tremendo frastuono, Boghaz si affrettò a dire ansiosamente a Carse, per la centesima volta: