E quando Carse si voltò, per procedere verso la porta di Caer Dhu, notò che Ywain lo stava fissando, con uno sguardo sorpreso e incredulo, nel quale già si affacciava l’ombra crescente di un dubbio. Il grande portale si aprì, maestosamente, e il Signore Rhiannon dei Quiru venne ammesso a Caer Dhu.
Gli antichi corridoi erano fiocamente illuminati da strani oggetti, che parevano globi di fuoco prigioniero, eretti alla sommità di grandi tripodi che sorgevano a lunghi intervalli, e irradiavano intorno una fredda luce verdastra. L’aria era tiepida, e impregnata del pesante fetore del Serpente, un lezzo odioso che chiuse la gola di Carse in un nodo fatto di vertigine, di nausea e di crescente, istintivo odio.
Hishah li precedeva, ora, e già questo era un segnale di pericolo, perché Rhiannon avrebbe dovuto conoscere bene la strada. Ma Hishah disse che desiderava avere l’onore di annunciare il suo Signore, e Carse non poté fare nulla, all’infuori che soffocare il terrore che già lo pervadeva, e di seguire la nera figura incappucciata.
Giunsero in una vasta sala centrale, chiusa da altissime pareti di roccia nera, che salivano fino a formare un’alta volta, che si perdeva nelle tenebre. Al di sotto, un unico, enorme globo dissipava in parte le fitte ombre, con la sua fioca luce.
C’era poca luce, per gli occhi di un essere umano. Ma anche quel poco era troppo, in quel luogo!
Perché nella sala i figli del serpente erano riuniti per dare il benvenuto al loro signore. E qui, nella loro città, essi non erano celati dalle lunghe vesti incappucciate, dai pesanti, neri mantelli che indossavano quando andavano tra i figli degli uomini.
I Nuotatori appartenevano al mare, i Celesti appartenevano al cielo, ed erano perfetti e splendidi, perfettamente adatti al loro elemento. E ora Carse poteva vedere la terza razza pseudo-umana degli Halfling dell’antico Marte… i figli delle tenebre, dei luoghi nascosti e segreti, i rampolli perfetti, spaventosamente perfetti di un altro grande ordine naturale.
In quel primo momento di turbamento, di ribrezzo e di orrore, Carse si rese conto solo confusamente che la voce di Hishah stava pronunciando il nome di Rhiannon, e il sibilante, sommesso grido di benvenuto che seguì quella parola fu solo un suono che esprimeva la piena, orribile dimensione dell’incubo che il terrestre pensava di vivere.
Dai lati della grande sala essi lo acclamarono, e dalle gallerie aperte, che sorgevano in alto, e i loro occhi piatti, glauchi e paurosi parevano scintillare, le loro strette, sottili teste serpentine si chinavano in segno di omaggio.
Corpi sinuosi che si muovevano torcendosi, con una strana, orribile grazia che faceva rabbrividire, corpi che parevano fluire, scorrere scivolare, piuttosto che camminare. Mani dalle dita prive di articolazioni, e di piedi che non producevano alcun suono, e bocche prive di labbra, che parevano schiudersi in segno di scherno, per sibilare sinistre risate, infinitamente crudeli. E per tutto il vasto salone si udiva un fruscio odioso, secco, sgradevole… la lieve frizione di una carne che aveva perduto le antiche, primordiali scaglie, ma non la sua durezza serpentina.
Carse sollevò la spada di Rhiannon, per ricambiare quel saluto, e si costrinse a parlare.
«Rhiannon si compiace del saluto dei suoi figli.»
Gli parve, in quel momento, che un sottile, frusciante sibilo si diffondesse nella grande sala, un sibilo che pareva l’espressione nascosta di una risata beffarda. Ma non poteva esserne sicuro, e Hishah già stava parlando:
«Mio Signore, ecco le tue antiche armi.»
Erano al centro della sala, in uno spazio libero. C’erano tutti gli enigmatici meccanismi che egli aveva visto nella Tomba di Rhiannon, quando era iniziata la sua strana, incredibile avventura, al suo arrivo in quell’altro tempo, in quel mondo del remoto passato. Vide la grande ruota piatta di cristallo, vide le sbarre metalliche tozze, stranamente intricate, e vide tutti gli altri strumenti che ricordava confusamente… e tutti mandavano cupi bagliori metallici, nel sinistro lucore del globo verdastro.
Il cuore di Carse parve arrendersi per un momento, poi riprese a battere, precipitosamente.
«Bene,» proclamò. «Non abbiamo molto tempo… portatele a bordo della chiatta, in modo che io possa ritornare immediatamente a Sark.»
«Certo, Signore,» disse Hishah. «Ma prima non vorresti esaminarle, per assicurarti che ogni cosa sia in ordine? Nella nostra grande ignoranza, potremmo averle involontariamente danneggiate, toccandole…»
Carse avanzò a grandi passi fino al centro della sala, là dove si trovavano le armi, e per qualche istante rimase curvo su di esse, fingendo di esaminarle, con una sicurezza che egli non provava. Finalmente, dopo un intervallo che giudicò soddisfacente, sollevò il capo, e annuì.
«Nessun danno è stato fatto. E ora…»
Hishah lo interruppe, parlando in un tono di untuoso rispetto.
«Prima di andartene, non vorresti spiegarci il funzionamento di questi strumenti? I tuoi figli sono sempre stati avidi di conoscenza.»
«Non c’è tempo per questo,» disse Carse, irato. «E inoltre, voi sapete bene che cosa siete… dei bambini che ancora non conoscono i segreti della conoscenza. Non potreste capire.»
«Può essere forse, Signore,» domandò Hishah, in tono sommesso e carezzevole, «Che tu stesso non sei in grado di capire?»
Ci fu un momento di completa immobilità, di completo silenzio.
Carse, in quell’istante, fu schiacciato dalla gelida consapevolezza della fine. Si sentiva condannato, chiuso in trappola. Voltandosi, si accorse che le file dei Dhuviam si erano silenziosamente serrate, dietro di lui, sbarrandogli ogni via di scampo.
Non avrebbe potuto compiere neppure un disperato tentativo per fuggire da quella sala.
All’interno del circolo, dello spazio libero completamente circondato dalla muraglia compatta dei Dhuviani, c’erano solo Garach, Ywain e Boghaz, in piedi al suo fianco. C’era un’espressione attonita, una mescolanza di orrore e di sorpresa, sul volto debole di Garach, e il Valkisiano aveva le spalle curve, e pareva schiacciato da un orrore che non perdeva la sua intensità, per il fatto che egli si trovava in una situazione che aveva certamente previsto. Soltanto Ywain non era sorpresa, né inorridita.
Lei stava fissando Carse, e i suoi occhi erano quelli di una donna che ha paura, ma non si trattava della paura di una situazione ignota, e dell’atavica paura del Serpente. Si trattava di una paura diversa. Carse intuì, d’un tratto, che ella aveva paura per lui, che vedeva scendere sopra di lui l’ombra oscura della morte, e che non voleva che lui morisse.
Il silenzio era totale, assoluto, colmo di attesa e di tensione.
In un ultimo, disperato tentativo di salvarsi dal destino che ormai sentiva incombere sopra di lui, Carse si rivolse a Hishah, cercando di mettere nella sua voce tutta la collera di un dio sdegnato, e domandò, con disprezzo e arroganza:
«Che cosa significa questa insolenza? Vuoi forse che io prenda le mie armi, per usarle contro di voi?»
«Fallo, se puoi,» disse Hishah, con subdola dolcezza. «Fallo, o falso Rhiannon, perché è certo che in nessun altro modo tu potrai mai più uscire da Caer Dhu!»
Capitolo XVIII
LA COLLERA DI RHIANNON
Carse rimase dov’era, immobile, circondato dallo scintillio di meccanismi di cristallo e di metallo che per lui non significavano nulla, che per lui erano strani e alieni e incomprensibili, e capì, con una terribile, definitiva certezza, che per lui era giunto il momento della sconfitta. E ora, la sibilante risata veniva da ogni lato della grande sala, infinitamente crudele e sinistra e sprezzante.
Garach tese una mano tremante verso Hishah.
«Ma allora…» balbettò, «Ma allora questo non è Rhiannon?»
«Anche la tua misera mente umana dovrebbe dirtelo, a questo punto,» rispose Hishah, con infinito disprezzo. Si era tolto il cappuccio, ora, e si stava avvicinando a Carse, e i suoi occhi maligni di serpente erano pieni di scherno. «Sarebbe bastato il contatto mentale, per farmi capire che tu eri un impostore, ma non ho avuto bisogno neppure di quello. Tu, Rhiannon! Rhiannon dei Quiru, che è venuto a salutare i suoi figli a Caer Dhu, in pace e fratellanza!»