Sweeney si raddrizzò per fermare il giradischi e in quel gesto la vista della statuetta gli rammentò qualcosa che doveva fare. Infilò l’accappatoio e si recò al telefono nell’atrio.
Riuscì a farsi dare in pochi minuti dal centralino interurbano la Ganslen Art Company a Louisville, nella persona del suo direttore generale, Ralph Burke.
— Questo è il “Blade” di Chicago — disse Sweeney. — Pare che si sia venuti a scoprire un collegamento tra una delle vostre statuette e un assassinio, su cui si vanno facendo ricerche. Si tratta di una giovane donna atterrita e qualcuno di voi l’ha battezzata «La statua che urla».
— Ah, sì, certamente; ora la ricordo. Cosa vorreste sapere?
— Potete dirmi quante copie ne sono state vendute e in particolare quante nella città di Chicago?
— Non molte, che io sappia. Non è stato un oggetto di grande successo, tanto che non l’abbiamo neppure inclusa nel catalogo. Abbiamo fatto una prova con dodici dozzine, ma ci sono rimaste quasi tutte invendute. Ne abbiamo dato un campione a tutti i rappresentanti sei mesi fa, e qualcuno ne ha piazzato alcuni esemplari. Se attendete un minuto al telefono, posso guardare quante ne sono state vendute a Chicago. O volete che vi richiami io più tardi?
— Aspetto in linea — rispose Sweeney.
Non era trascorso più di un minuto che la voce del direttore risuonava al telefono. — Ho tutto qui con me. Per fortuna registriamo separatamente ogni articolo. Dunque… ce ne sono state soltanto due vendute a Chicago. Due sole ed entrambe a un negozio che si chiama “Da Raoul”. Tutt’insieme ne abbiamo vendute una quarantina. Volete i dati precisi?
— No, grazie — disse Sweeney — ditemi invece, per favore, che cosa ne farete delle cento statuette che vi rimangono?
— Ce ne libereremo l’anno venturo, con lotti misti di merce. Se un cliente ci ordina, per esempio, una dozzina di figurette varie a nostra scelta, le paga alla metà del prezzo di listino e noi ci liberiamo così dei residui e dei fondi di magazzino. Ci perdiamo, naturalmente, ma è sempre meglio che buttarle via.
— È evidente — disse Sweeney. — Ricordate chi ha trovato il nome «La statua che urla»?
— Il nostro contabile: per lui è una mania cercare dei nomi che accompagnino gli articoli, perché dice che lo aiuta a ricordare gli articoli stessi. — Il direttore fece una risatina. — Ogni tanto ne azzecca qualcuno a meraviglia: mi ricordo per esempio…
— Mi piacerebbe quasi ordinarvene una copia — lo interruppe Sweeney. — Ma torniamo alla statua. Chi l’ha disegnata o scolpita o modellata?
— Un tale che si chiama Chapman Wilson. Artista e scultore che vive a Brampton, nel Wisconsin. L’aveva modellata in creta.
— E ve l’ha mandata?
— No, l’ho comperata io da lui a Brampton. Sono io che mi occupo degli acquisti, durante i molti viaggi che faccio apposta nel corso dell’anno. Abbiamo un certo numero di artisti dai quali acquistiamo modelli ed è molto più pratico andare di persona nei loro studi a vedere che cos’hanno, piuttosto che avere qui in magazzino un monte di roba, di cui la maggior parte si dovrebbe poi rimandare indietro. «La statua che urla» l’ho comperata da lui un anno fa, insieme ad altre due figurine. Per le altre ho indovinato perché si vendono benissimo.
— Questo Chapman Wilson… ha copiato la statua dal vero o come?
— Non saprei; non gliel’ho domandato. L’originale era in creta, della stessa misura delle nostre copie, circa venticinque centimetri. Ho accettato il rischio di prenderla perché era diversa dal solito. L’insolito può avere un magnifico successo oppure essere un fallimento. È il rischio che corriamo noi.
— Non sapete nulla su Chapman, personalmente?
— Non molto. È piuttosto stravagante, ma quasi tutti gli artisti lo sono.
— È sposato?
— No. O almeno credo di no. Non gliel’ho domandato, ma non ho mai visto in casa sua una donna o qualche traccia femminile.
— Mi avete detto che è stravagante: potrebbe essere addirittura uno psicopatico?
— Credo di no. È un poco svaporato, e basta. La maggior parte della sua produzione è graziosa e normale e si vende benissimo.
— Grazie mille — disse Sweeney — credo di non avere altro da chiedervi. Arrivederci. — Si segnò le unità telefoniche, per sistemare i conti con la signora Randall, e tornò in camera.
Seduto sull’orlo del letto, guardava la statuetta nera: era stato più fortunato di quanto non avesse sperato. Soltanto due statuette erano state vendute a Chicago ed egli ne aveva una davanti agli occhi. L’altra… forse in quel momento la guardava lo Squartatore.
La fortuna degli irlandesi, pensò Sweeney: si occupava del caso da un giorno e aveva una traccia per cui i poliziotti avrebbero dato un occhio. Inoltre, si sentiva pronto per il compito che lo aspettava. Provava perfino un certo appetito, e sarebbe probabilmente riuscito quel giorno a inghiottire un intero pasto. Si tolse l’accappatoio e, appendendolo a un gancio, si stirò piacevolmente. Si sentiva più grande e sorrise alla statuetta, pensando: “Tu e io, piccola, siamo di un passo avanti alla polizia e tutto quel che dobbiamo fare è di trovare la tua sorellina”.
La statuetta continuò nel suo silenzioso urlo di terrore, e il sorriso di Sweeney disparve: in qualche angolo di Chicago, un’altra statuetta stava urlando come la sua e con miglior motivo. Era un pazzo armato di un coltello a possederla, un essere dalla mente contorta e dal rasoio diritto e affilato. Un essere che non avrebbe mai voluto che Sweeney lo scoprisse. Mentalmente Sweeney si scosse per allontanare quel pensiero e si voltò verso lo specchio sopra il lavabo, passandosi una mano sulla faccia. Doveva farsi la barba: nel pomeriggio avrebbe conosciuto Iolanda, se Doc Greene manteneva la parola. Aveva idea che l’avrebbe mantenuta. Stese in fuori la mano per osservarla: sì, era abbastanza ferma perché potesse farsi la barba col rasoio affilato senza tagliarsi. Prese sulla mensola il sapone da barba e il pennello, immerse questo nell’acqua bollente e si insaponò abbondantemente la faccia. Poi cercò il rasoio: non c’era, non era là dove sarebbe dovuto essere. La mano gli era rimasta a mezz’aria, sopra alla mensola, in una immobilità gelida, come l’urlo della statuetta, finché, con uno sforzo meditato, la ritirò. Chinandosi in avanti guardò con la massima attenzione e la massima incredulità un segno sul lieve strato di polvere che copriva la mensola, un segno identico alla forma del rasoio.
Ripulì con cura la faccia dal sapone con una salvietta bagnata e si vestì. Poi scese al piano inferiore. La porta della signora Randall era socchiusa. Lei lo chiamò. — Entri, signor Sweeney.
Sweeney si fermò sulla soglia. — Quando avete spolverato in camera mia, l’ultima volta?
— Be’… ieri mattina.
— Vi ricordate di aver visto… — Stava per domandarle se avesse scorto il rasoio al suo posto, poi si rese conto che non doveva domandarlo. Che la donna lo ricordasse o no, il segno fresco sulla polvere indicava che il rasoio era stato ancora là dopo il passaggio dello strofinaccio per la polvere. Allora cambiò la domanda. — È andato qualcuno in camera mia, ieri sera o ieri pomeriggio, dopo che ero uscito?