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«Be’, sono contenta di averlo visto» dice Kay Scarpetta. «Ma avrebbero dovuto dirmelo.»

Pete Marino, che è in automobile con lei, osserva in silenzio il cantiere.

«E sono contenta che l’abbia visto anche tu, capitano» aggiunge Kay. Non lo chiama spesso “capitano”, anche perché Marino non lo è più. Quando lo fa, è per gentilezza.

«Contenta tu, contenti tutti» borbotta lui con il suo tipico sarcasmo. «Comunque sì, hai ragione, avrebbero dovuto dirtelo. Se non altro, quel coglione che ha preso il tuo posto e ti ha supplicato di venire qui dopo cinque anni a dargli una mano poteva fare lo sforzo di avvertirti. O no?»

«Probabilmente non ci ha pensato» lo giustifica Kay.

«Sì, bravo» commenta Marino. «Mi sta già sulle palle.»

Indossa pantaloni sportivi neri, anfibi, giacca di finta pelle nera e berretto con visiera del Dipartimento di polizia di Los Angeles. Kay Scarpetta sa che vuole fare la figura del bullo metropolitano perché ce l’ha ancora a morte con “quelli di Richmond” che gli hanno fatto fare vita grama quando era ispettore di polizia in Virginia. Marino è convinto di non aver meritato le numerose ammonizioni, le sospensioni, i trasferimenti e i provvedimenti disciplinari che ha ricevuto nel corso della sua carriera e non si rende conto che, se gli altri lo trattano male, spesso è perché lui li provoca.

Kay Scarpetta lo guarda, seduto imbronciato con gli occhiali da sole e quel berretto, e pensa che sembra scemo, soprattutto visto che odia Los Angeles, Hollywood, il mondo dello spettacolo e tutti quelli che muoiono dalla voglia di farne parte. Il berretto della polizia di Los Angeles è un regalo di Lucy la nipote di Kay Scarpetta, che recentemente ha aperto una filiale della propria agenzia di investigazioni a Los Angeles. Chissà perché Marino, per tornare a Richmond, ha scelto un look così: forse era sua precisa intenzione mostrarsi completamente diverso da quello che è.

«Dunque non vai ad Aspen» le dice a voce bassa. «Chissà com’è incacchiato Benton.»

«Per la verità è impegnato» risponde Kay. «Quindi se lo raggiungo fra due o tre giorni è più contento.»

«Due o tre giorni? Tu pensi davvero che ci metteremo soltanto due o tre giorni? Vedrai che ad Aspen non ci vai più. Com’è che Benton è impegnato, comunque?»

«Non me lo ha detto e io non gliel’ho chiesto» risponde lei per chiudere il discorso. Non ha nessuna voglia di parlarne.

Marino guarda fuori del finestrino senza dire niente e Kay Scarpetta è certa che sta pensando ai suoi rapporti con Benton Wesley Probabilmente ci pensa spesso, troppo spesso: ha intuito che lei si è allontanata da Benton, che da quando sono tornati insieme sono più distanti. La disturba che Marino se ne sia accorto, anche se è naturale: se qualcuno doveva accorgersene, era ovvio che fosse proprio lui.

«Peccato per Aspen» dice Marino. «Io mi incacchierei, comunque.»

«Guarda!» esclama Kay Scarpetta, indicandogli il palazzo che viene abbattuto sotto i loro occhi. «Già che siamo qui, tanto vale che ce ne prendiamo una vista.» Non vuole parlare né di Aspen né di Benton, né del perché non è in montagna con lui. Gli anni in cui pensava che fosse morto l’hanno cambiata profondamente. Quando lui è rientrato nella sua vita, nulla è stato più come prima. Kay non sa perché.

«Non potevano fare a meno di buttarlo giù» sentenzia Marino guardando dal finestrino. «Ci devono passare i binari dell’Amtrak. Siccome riaprono la Main Street Station, avevano bisogno di spazio. Non so chi me l’ha detto. È passato un sacco di tempo.»

«Potevi anche dirmelo» gli dice Kay.

«È passato un sacco di tempo, non so neanche più dove l’ho sentito.»

«Avresti potuto dirmelo lo stesso.»

Marino la guarda in faccia. «Senti, capisco che ti girino le scatole. Lo sapevamo, che tornare a Richmond non sarebbe stato facile. Siamo appena arrivati e ci troviamo davanti questo scempio. Siamo qui da meno di un’ora e scopriamo che il palazzo in cui lavoravamo insieme è un cumulo di macerie. A me non sembra un gran bel segnale. Senti, stai andando troppo piano: guarda che ci tamponano.»

«Non mi girano le scatole» ribatte Kay Scarpetta. «È solo che avrei gradito essere informata, tutto qui.»

Procede a passo d’uomo e osserva il cantiere.

«È di cattivo auspicio, questa cosa» ribadisce lui. La guarda, poi si volta verso il finestrino.

Kay Scarpetta non accelera e continua a osservare. Le ci vuole un po’ per digerire il fatto che la vecchia sede dell’Istituto di medicina legale e dei laboratori forensi della Virginia sta per essere demolita per rendere possibile la riapertura di una stazione ferroviaria che, nei dieci anni in cui lei e Marino hanno lavorato e vissuto a Richmond, era in disuso. Quella stazione, un vecchio edificio in pietra di un certo valore architettonico, dopo un lungo periodo di abbandono è stata riconvertita in un centro commerciale, quindi ha ospitato alcuni uffici amministrativi, poi chiusi. Il suo orologio svettava sopra gli edifici circostanti e si vedeva da molte parti della città, bianco, spettrale, con le lancette di metallo sottile.

Richmond è andata avanti, durante la sua assenza. Main Street Station è risorta, l’orologio della stazione funziona di nuovo e segna le otto e sedici minuti. Era rotto da anni, Kay Scarpetta non l’aveva mai visto funzionare. La vita in Virginia continua, ma nessuno si è premurato di dirglielo.

«Non so che cosa mi aspettassi» confessa guardando dal finestrino. «Forse speravo che lo usassero come archivio, come magazzino. Non credevo che lo demolissero.»

«Era necessario» taglia corto Marino.

«Non so perché, ma non me l’aspettavo.»

«Non era mica l’ottava meraviglia del mondo» insiste Marino, in tono improvvisamente seccato. «Un cubo di cemento anni Settanta in cui sono passati chissà quanti morti ammazzati, gente andata al Creatore per AIDS, cancrena e quant’altro, donne e bambini stuprati, strangolati, pugnalati… pazzi finiti sotto a un treno… Ne ha viste di brutture, questo posto… Per non parlare dei cadaveri conservati nella divisione di Anatomia. Quelli sono la cosa peggiore, per me. Ti ricordi che li tiravano fuori dalle vasche di formalina con un argano, agganciandoli per le orecchie? Nudi, rosa come porcellini, tutti rannicchiati… Che orrore!» Avvicina le gambe flesse al mento per mimare la posizione dei cadaveri.

«Fino a poco tempo fa non saresti riuscito a tirare su le gambe a quel modo» gli fa notare Kay Scarpetta. «Tre mesi fa, le piegavi a malapena.»

«Ma dai…»

«Sul serio. Anzi, volevo dirtelo: sei dimagrito un sacco, stai proprio bene.»

«Ad alzare una gamba ci vuole veramente poco: basta pensare ai cani. Maschi, naturalmente» scherza Marino, soddisfatto del complimento. Kay Scarpetta si dispiace di non avergli detto prima quanto lo trovava migliorato.

«Davvero, sei molto più in forma.» Per anni ha avuto paura che Marino schiattasse a causa delle sue abitudini malsane, e si dispiace di non averlo incoraggiato abbastanza, quando lui ha cominciato a cambiare vita. Si è dovuta trovare di fronte alle macerie del suo vecchio Istituto di medicina legale per riuscire a dirgli qualcosa di gentile. «Scusami se non te l’ho detto prima» aggiunge. «Spero che tu non segua una dieta iperproteica.»

«Abito in Florida, adesso» risponde lui tutto allegro. «Seguo la dieta di South Beach. Anche se a South Beach non metto piede: è pieno di finocchi.»

«Non mi piace che tu ti esprima in questo modo» lo interrompe Kay. Le dà un fastidio terribile sentire certe parole. Marino lo sa e le usa apposta.

«Ti ricordi il forno?» Marino riprende il filo dei ricordi. «Quando c’erano le cremazioni, lo sapevano tutti perché usciva il fumo dal comignolo.» Indica la ciminiera scura del crematorio. «Se vedevo uscire il fumo, chiudevo i finestrini della macchina. Non voglio mica respirare certa roba, io…»