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Kay Scarpetta sta passando lungo la parte posteriore del complesso, che è ancora intatta e le sembra identica a come la ricordava. Il parcheggio è vuoto, a parte un grosso trattore giallo fermo proprio dove lei aveva il posto macchina quando dirigeva l’istituto, appena a destra dell’entrata. Per un attimo, le pare di risentire la saracinesca cigolante che si azionava premendo un grosso pulsante rosso e verde, le voci, il viavai di carri funebri, ambulanze e barelle che trasportavano i sacchi grigi in cui erano chiusi i cadaveri. Giorno e notte, notte e giorno, senza soluzione di continuità.

«Guarda bene» dice a Marino.

«Ho già visto tutto quello che c’è da vedere» ribatte lui. «Quanti giri vuoi fare intorno al palazzo?»

«Due. Per farmi un quadro preciso della situazione.»

Svolta a sinistra in Main Street e gira intorno al cantiere a velocità lievemente più alta. Passando di nuovo davanti al parcheggio, nota un uomo in pantaloni verde oliva e giacca nera vicino a un trattore giallo, che traffica con il motore. Capisce che sta cercando di riparare un guasto e rabbrividisce nel vederlo davanti alla grossa ruota nera.

«Secondo me, ti conviene lasciare il berretto in macchina» dice a Marino.

«Come, scusa?» chiede lui voltandosi dalla sua parte.

«Mi hai sentito benissimo. È solo un consiglio da amica» risponde Kay, mentre l’uomo davanti al trattore scompare alla sua vista.

«Tu mi dai spesso consigli» replica lui. «Non so se da amica, però.» Si toglie il berretto con la scritta LAPD e lo guarda pensoso. Ha la fronte sudata e rasati a zero i pochi capelli che madre natura gli ha lasciato.

«Non mi hai mai detto perché adesso ti radi a zero» gli dice.

«Non me l’hai mai chiesto.»

«Be’, te lo chiedo ora.» Svolta in direzione nord, allontanandosi dal cantiere verso Broad Street, e accelera.

«È di moda» risponde Marino. «Per averne pochi, tanto vale non averne e basta.»

«Sì, ha una logica» risponde Kay. «Come tutto, peraltro.»

2

Edgar Allan Pogue si guarda le dita dei piedi rilassandosi sulla sdraio. Sorride e pensa alla reazione che avrà la gente quando scoprirà che è andato a stare a Hollywood. “La mia seconda casa” pensa. Lui, Edgar Allan Pogue, ha una seconda casa, dove andare a riposarsi e a prendere il sole.

A nessuno verrà in mente che potrebbe trattarsi di un’altra Hollywood. Quando si parla di Hollywood si pensa sempre all’enorme insegna sulla collina, alle ville lussuosissime, a spider ultimo modello e a personaggi famosi. A nessuno verrà in mente che la Hollywood di Edgar Allan Pogue è nella contea di Broward, a un’ora di macchina da Miami, e senza star del cinema. Al medico lo dovrà dire, però, pensa addolorato. Sì, il medico sarà il primo a saperlo, perché deve fargli il vaccino. Uno che sta a Hollywood non può rimanere senza vaccino antinfluenzale, anche se dovesse scarseggiare. Pogue si arrabbia al solo pensiero.

«Vedi, mamma, siamo qui. Siamo qui veramente, non è un sogno» dice con la voce strascicata di chi ha qualcosa in bocca che gli impedisce di pronunciare bene le parole. Stringe fra i denti bianchi e regolari una matita di legno. «E tu che pensavi che non ci saremmo mai arrivati» continua, sbavando sulla matita. Un rivoletto di saliva gli cola sul mento.

Non vali una cicca, Edgar Allan. Non ne fai una giusta. Parla con la matita in bocca, imitando la voce maligna e da ubriaca di sua madre. Sei un buono a nulla, Edgar Allan, ecco che cosa sei. Un fallimento, un fallimento totale.

La sedia a sdraio è esattamente al centro del salotto asfittico e puzzolente del monolocale, che non è esattamente al centro del primo piano di un condominio in Garfield Street, la via che prende il nome dal presidente degli Stati Uniti e collega Hollywood Boulevard e Sheridan Street. Il condominio giallino a due piani si chiama Garfield Court. Non ha cortili, non ha giardini, ma ha un parcheggio con tre palme sparute le cui foglie appuntite ricordano a Pogue le ali delle farfalle che fissava con gli spilli sul cartoncino quando era ragazzo.

Una pianta senza linfa, ecco cosa sei. È questo il tuo problema.

«Smettila, mamma. Smettila immediatamente. Non è bello parlare così.»

Quando ha preso in affitto la sua seconda casa due settimane fa, Pogue non ha cercato di contrattare sul prezzo, benché novecentocinquanta dollari al mese sia una cifra esagerata, con cui a Richmond avrebbe potuto prendere una casa migliore. Ma da queste parti gli alloggi scarseggiano, e quando è finalmente arrivato nella contea, dopo sedici ore di macchina, non sapeva dove andare. Esausto e al tempo stesso euforico, ha cominciato a girare per orientarsi e per trovare un posto dove stare. Non voleva andare in albergo, nemmeno per una notte soltanto. Sulla vecchia Buick bianca aveva tutte le sue cose e non voleva correre il rischio che qualche delinquentello gli spaccasse un finestrino per portargli via videoregistratore, televisore, abiti, articoli da toilette, computer portatile, parrucca, sdraio, lampada, lenzuola, libri, penne e le boccette di smalto bianco, rosso e blu che gli servono per la sua amata mazza da baseball. Per non parlare dei vecchi amici.

«È stato terrificante, mamma» le racconta, per evitare di sentire i suoi rimproveri da ubriaca. «Sono stato costretto a lasciare la nostra bella cittadina del Sud in fretta e furia. Non per sempre, però. No, certamente non per sempre. Adesso ho una seconda casa e farò la spola fra Hollywood e Richmond. Non sognavamo da sempre di andare a Hollywood? Be’, adesso ci siamo. Cercheremo di fare fortuna, vero?»

Funziona: ha spostato l’attenzione della madre ed evitato ulteriori insulti.

«Subito, quando sono uscito da North Twenty-fourth Street e mi sono ritrovato in un quartiere squallidissimo chiamato Liberia, mi sono sentito un po’ sperso. C’era un furgoncino che vendeva gelati.»

Continua a parlare con la matita in bocca, come se avesse un morso per cavalli. Gli serve per non fumare, che secondo lui non è tanto una brutta abitudine nociva per la salute, quanto un passatempo troppo costoso. Ogni tanto si concede un sigaro. Si concede poco altro, ma ogni tanto un pacchetto di Indios, oppure di Cubitas o Fuentes se lo deve comprare. Per la verità, i suoi sigari preferiti sono i Cohiba, cubani, che acquista di contrabbando. Sa dove procurarseli e lo fa, perché non c’è paragone rispetto agli altri. I suoi polmoni esultano, quando si riempiono di fumo di Cohiba. Ai polmoni fanno male le impurità, non il purissimo tabacco cubano.

«Non ci credi? Un furgoncino dei gelati, con la sua bella musichetta, e un sacco di bambini negri intorno, con le monetine in mano. Un ghetto, capisci? Una zona di guerra. E per di più stava calando il sole. Chissà come sparano, di notte, nel quartiere Liberia. Naturalmente me ne sono andato e sono miracolosamente approdato in un’altra zona. Insomma, ti ho portato qui a Hollywood sana e salva. Vero, mamma?»

Si è ritrovato non sa bene neppure lui come in Garfield Street, piena di condomini a due piani con le ringhiere di ferro battuto, le persiane alle finestre e giardinetti troppo piccoli per avere una piscina. Case costruite negli anni Cinquanta e Sessanta, che gli piacciono perché sopravvissute a terribili uragani, epocali cambiamenti demografici e inarrestabili aumenti di tasse che hanno spinto i vecchi proprietari a trasferirsi altrove, lasciando il posto a nuovi inquilini, probabilmente incapaci di spiccicare una parola di inglese. I quartieri sopravvivono a tutto. Mentre faceva queste riflessioni, Pogue si è ritrovato davanti al condominio giallino.

Fuori c’era un cartello con la scritta GARFIELD COURT e una serie di numeri di telefono. È entrato nel parcheggio e ha preso nota dei numeri, poi si è fermato al primo distributore per chiamare dal telefono pubblico. Sì, un appartamento libero c’era. Il proprietario, tale Benjamin P. Shupe, gli ha fissato un appuntamento per un’ora dopo.

“Non si può, non si può” diceva continuamente Shupe, seduto alla scrivania del suo ufficio al pianterreno, dove faceva un caldo spaventoso e non si respirava, anche per colpa dell’insopportabile profumo di cui lui si era cosparso. “L’aria condizionata non c’è. Se vuole, si può comprare un piccolo condizionatore. Ma questo è il periodo migliore dell’anno, la bella stagione. Non ce n’è mica bisogno.”