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Benjamin P. Shupe sorrideva mostrando la dentiera bianchissima, che a Pogue fece venire in mente le piastrelle del bagno, e batteva l’indice grassoccio sul piano della scrivania. Aveva un anello con tanti brillantini.

“Guardi, lei è fortunato. In questo periodo dell’anno c’è sempre un sacco di gente. Sa che ho dieci persone in lista d’attesa per l’appartamento che vuole lei?” Ha fatto un gesto con il braccio per mostrargli che aveva il Rolex d’oro, ignaro del fatto che gli occhiali scuri di Pogue non erano da vista e i suoi lunghi capelli neri erano in realtà una parrucca. “Fra due giorni qui davanti avrò la coda. Guardi, a darle l’appartamento a questa cifra ci rimetto.”

Pogue ha pagato in contanti, senza bisogno di documenti, caparre o altre garanzie. Fra tre settimane dovrà pagare l’affitto di gennaio, di nuovo in contanti, se deciderà di tenere la sua seconda casa a Hollywood. Ma è un po’ presto per sapere che cosa farà, dopo Capodanno.

«Troppe cose da fare, troppe cose da fare» borbotta sfogliando un dépliant di pompe funebri, poi se lo posa in grembo e guarda fotografie di urne che conosce a memoria. La sua preferita continua a essere quella in peltro, a forma di libro con una penna d’oca fra le pagine. Nella sua mente, è un libro di Edgar Allan Poe, lo scrittore di cui porta il nome. Si chiede quante centinaia di dollari potrà mai costare quell’urna tanto elegante e medita se telefonare al numero verde.

«Dovrei chiamarli e ordinarne una» dice giocoso. «Non pensi, mamma?» La stuzzica, come se avesse il telefono e potesse chiamare anche subito. «Ti piacerebbe, vero?» Sfiora l’imrnagine. «Ti piacerebbe l’urna di Edgar Allan, vero? Be’, sai cosa ti dico? Non chiamerò finché non avremo qualcosa da festeggiare. Perché il lavoro non va come previsto, mamma. Sì, mi hai sentito. Va un po’ a rilento, per la verità.»

Un buono a nulla, ecco che cosa sei.

«No, mamma, non sono un buono a nulla.» Scuote la testa e sfoglia il dépliant. «Non ricominciamo, per favore. Siamo a Hollywood. Non è bello?»

Pensa alla villa color salmone non lontano da lì, sul mare, e si sente travolgere dalle emozioni. L’ha trovata come previsto, e ci è entrato. Ma poi è andato tutto storto, e adesso non c’è niente da festeggiare.

«Tutto sbagliato, tutto sbagliato.» Si batte una mano sulla fronte, come faceva sua madre. «Non doveva andare così. Il pesce piccolo è fuggito.» Mima con due dita un pesce che nuota. «E ha lasciato il pesce grosso.» Mima il movimento di un pesce con entrambe le braccia. «Il pesce piccolo è andato chissà dove, non mi interessa nemmeno sapere dove. No, non mi interessa. Perché il pesce grosso è ancora lì e, se io ho fatto scappare il pesce piccolo, di sicuro il pesce grosso non sarà tanto contento. E come potrebbe esserlo? Fra poco festeggeremo, vedrai.»

Te lo sei lasciato sfuggire? Come hai fatto a essere tanto scemo? Non hai preso il pesce piccolo e pensi di poter prendere quello grosso? Un buono a nulla, ecco che cosa sei. Sarai veramente figlio mio?

«Non dire così, mamma. Non è gentile da parte tua» dice Pogue con la testa china sul dépliant.

Sua madre dà certe occhiate che ti fulminano. Suo padre era solito dire: “Ti fa gli occhi pelosi”. Edgar Allan Pogue non ha mai capito perché. Gli occhi non hanno peli, non si è mai visto. Lo saprebbe, lui, se esistessero occhi pelosi. Sa quasi tutto, lui. Lascia cadere il dépliant sul pavimento, si alza dalla sdraio gialla e bianca e va a prendere la mazza da baseball di alluminio che tiene in un angolo, appoggiata al muro. Le veneziane dell’unica finestra del salotto sono abbassate e la stanza è immersa in una piacevole penombra, rotta soltanto dalla luce di una lampada posata per terra.

«Vediamo. Che cosa facciamo oggi?» continua, sempre tenendo la matita in bocca, rivolto a una scatola di biscotti di latta sotto la sedia a sdraio, e intanto impugna la mazza e ne controlla le stelle e strisce bianche, rosse e blu che ha ritoccato esattamente centoundici volte. La lucida amorevolmente con un fazzoletto bianco e poi si pulisce le mani nello stesso fazzoletto, ripetutamente. «Dovremmo fare qualcosa di speciale. Secondo me, dobbiamo uscire.»

Si avvicina al muro, si toglie la matita di bocca e la prende in mano, sempre tenendo la mazza con l’altra. Piega la testa da una parte e strizza gli occhi, guardando il disegno appena abbozzato appeso alla parete beige. Avvicina la punta della matita bagnata e mordicchiata al grande occhio sbarrato e infoltisce le ciglia.

«Ecco qua.» Fa un passo indietro, piega di nuovo la testa da una parte e ammira la sua creazione, un grande occhio e la linea della guancia, sempre impugnando la mazza da baseball.

«Ti ho detto che oggi sei particolarmente carina? Presto le tue guance avranno un colore stupendo e diventeranno rosse come mele mature.»

Si sistema la matita dietro l’orecchio e apre la mano davanti agli occhi, controllandone ogni nocca, piega, segno e linea, per poi esaminare con cura le unghie piccole e arrotondate. Muove le dita, guarda i muscoli che si tendono e immagina di passare la mano sulla pelle fredda, di massaggiarla per portare in superficie il sangue freddo e fermo, di palparla in maniera da infondere colore alla morte. Immagina di battere con la mazza che tiene nell’altra mano. Vorrebbe poter descrivere un arco con la mazza per colpire con violenza l’occhio appeso al muro, ma non lo fa. Non può, non deve. Passeggia per la stanza, con il cuore che batte all’impazzata, frustrato. Troppa confusione.

L’appartamento è praticamente vuoto, ma vi regna il caos. In cucina ci sono tovaglioli, piatti di carta e posate dappertutto, scatolette e pacchi di pasta che non ha riposto nell’unico armadietto. Nel lavandino ci sono una pentola e una padella immerse in acqua ormai fredda e unta. Sulla moquette azzurra e macchiata ci sono borse, indumenti, libri, matite e fogli di carta bianca da pochi soldi. Ovunque aleggia un odore stagnante di cibo e di sigari, oltre che di sudore. Fa caldo e Pogue è nudo.

«Dovremmo vedere come sta la signora Arnette. Non è in gran forma» dice alla madre, senza guardarla. «Ti fa piacere se viene qualcuno a trovarci? Prima di tutto, lo devo chiedere a te. Potrebbe farci bene, però. Io mi sento un po’ scombussolato, se devo dire.» Pensa al pesce piccolo che gli è sfuggito e si guarda intorno. «Una visita potrebbe essere la soluzione migliore. Cosa ne pensi?»

Sì, va bene.

«Allora siamo d’accordo?» La sua voce baritonale si alza e si abbassa, il tono è quello dell’adulto che si rivolge a un bambino, o a un cane. «Ti fa piacere se la invitiamo? Bene, benissimo.»

Cammina a piedi nudi sulla moquette e si accuccia accanto a una scatola di cartone che contiene videocassette, scatole di sigari e buste piene di fotografie, tutte provviste di etichette scritte con grafia piccola e ordinata. In fondo al cartone trova la scatola di sigari della signora Arnette e una busta di Polaroid.

«Mamma, la signora Arnette è venuta a trovarci» dice in tono soddisfatto aprendo la scatola di sigari e posandola sulla sedia a sdraio. Guarda le foto e sceglie la sua preferita. «Te la ricordi, vero? Vi siete conosciute. Una vecchia signora molto simpatica. Una fata dai capelli turchini. Vedi che ha proprio i capelli turchini?»

Eh, sì.

Imita la cadenza della madre, la voce strascicata che aveva dopo essersi scolata una bottiglia di vodka.

«Ti piace la sua nuova scatola?» le chiede, infilando il dito nella scatola di sigari e soffiando cenere bianca nell’aria. «Non essere gelosa, è dimagrita dall’ultima volta che l’hai vista. Chissà qual è il suo segreto» la stuzzica. Poi rimette il dito nella cenere e soffia di nuovo. Sua madre è grassissima e lui vuole farla ingelosire. Si pulisce le mani nel fazzoletto bianco. «Credo che la nostra amica stia molto bene, veramente.»