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«Signore?» balbettò un giornalista sbalordito, guardando nella busta. «È tutto vero?»

Sexton sospirò tristemente. «Sì, purtroppo.»

Mormorii confusi cominciarono a serpeggiare tra la folla.

«Vi lascerò un minuto per esaminare il materiale» disse Sexton «poi risponderò alle vostre domande cercando di fare luce su ciò che vedete.»

«Senatore?» fece un altro cronista, palesemente interdetto. «Queste immagini sono… autentiche? Non ritoccate?»

«Al cento per cento» fu la ferma risposta di Sexton. «Altrimenti non ve le avrei mostrate.»

La perplessità dei presenti sembrò aumentare e Sexton ebbe l'impressione di udire anche qualche risata. Non era affatto la reazione immaginata. Temette di avere sopravvalutato la capacità dei media di trarre le ovvie conclusioni.

«Ehm, senatore?» fece qualcuno, stranamente divertito. «Lei garantisce ufficialmente l'autenticità di queste immagini?»

Sexton cominciò a irritarsi. «Amici miei, ve lo ripeto per l'ultima volta: le prove in mano vostra sono attendibili al cento per cento. E, se qualcuno dimostrerà il contrario, mi mangerò il cappello!»

Sexton aspettò la risata, che non arrivò.

Silenzio assoluto. Sguardi disorientati.

Il cronista che aveva appena parlato si avvicinò a Sexton, sfogliando le sue copie. «Ha ragione, senatore. Questi sono documenti sensazionali.» Fece una pausa, grattandosi la testa. «Solo che non ci è chiaro il motivo che l'ha spinta a condividerli con noi, in questo modo, specialmente dopo avere negato con tanta decisione, in passato.»

Sexton non capiva di che parlasse. Il reporter gli porse le fotocopie. Sexton guardò i fogli e, per un attimo, la sua mente si svuotò.

Rimase senza parole.

Stava fissando fotografie mai viste. Immagini in bianco e nero. Due persone nude. Gambe e braccia intrecciate. Per un istante non ebbe idea di cosa stesse osservando. Poi, l'evidenza lo colpì come una palla di cannone nello stomaco.

Con orrore, Sexton alzò di scatto la testa verso il pubblico. Molti ridevano e stavano già telefonando in redazione per riferire la storia.

Sexton sentì un colpetto sulla spalla.

Si voltò, intontito.

Era Rachel. «Abbiamo cercato di fermarti» disse. «Ti abbiamo offerto ogni possibilità.» Vicino a lei, c'era una donna.

Sexton, tremante, rivolse lo sguardo verso di lei. Era la cronista in cappotto di cachemire e basco di mohair, quella che aveva fatto cadere le buste. Nel vederla in faccia, sentì ghiacciare il sangue nelle vene.

Gabrielle sembrò trafiggerlo con i suoi occhi scuri, poi sbottonò il cappotto per mostrargli un fascio di buste bianche accuratamente infilate sotto il braccio.

132

Lo Studio Ovale era buio, illuminato solo dal fioco bagliore della lampada d'ottone sulla scrivania del presidente Herney. Davanti a lui, Gabrielle Ashe, a testa alta.

Fuori dalla finestra, il crepuscolo stava scendendo sul prato di ponente.

«Ho sentito che ci lascerà» disse Herney, in tono accorato.

Gabrielle annuì. Benché il presidente le avesse generosamente offerto ospitalità alla Casa Bianca, lontano dalla stampa, Gabrielle aveva preferito non rifugiarsi proprio nell'occhio del ciclone, in attesa di tempi migliori. Voleva andare il più lontano possibile, almeno per un po'.

Herney la scrutò con ammirazione. «Gabrielle, il suo gesto, stamattina…» Si interruppe, come se non trovasse le parole. I suoi occhi erano diretti e limpidi, completamente diversi dai due profondi ed enigmatici specchi d'acqua che l'avevano una volta attratta verso Sedgewick Sexton.

Eppure, perfino contro lo sfondo di quella sede del potere, Gabrielle notò nel suo sguardo una genuina gentilezza, un'onestà e una dignità che non avrebbe dimenticato. «L'ho fatto anche per me stessa» disse infine.

Herney annuì. «In ogni caso, le devo i miei ringraziamenti.» Si alzò, facendole cenno di seguirla nel corridoio. «Veramente avrei voluto che rimanesse per poterle offrire un posto nella divisione Bilancio e programmazione.»

Gabrielle lo guardò dubbiosa. «Stop alla spesa, cominciamo la ripresa?»

Herney ridacchiò. «Qualcosa del genere.»

«Presidente, sappiamo tutti e due che, al momento, io costituirei più che altro un intralcio.»

Herney alzò le spalle. «Lasci passare qualche mese e tutto sarà dimenticato. Tanti grandi uomini, e grandi donne, hanno sofferto momenti difficili sulla via della gloria.» Le strizzò l'occhio. «Alcuni sono diventati addirittura presidenti degli Stati Uniti.»

Gabrielle sapeva che aveva ragione. Disoccupata solo da poche ore, quel giorno aveva già respinto due offerte di lavoro: una di Yolanda Cole della ABC, un'altra della casa editrice St Martin's Press, che le aveva offerto uno scandaloso anticipo per scrivere un'autobiografia molto esplicita. "No grazie."

Mentre si avviava con il presidente lungo il corridoio, Gabrielle pensò alle sue foto, che in quel momento venivano sbattute su tutti gli schermi televisivi.

"Il danno sarebbe stato peggiore per il paese" si disse. "Molto peggiore."

Gabrielle, dopo essere andata alla ABC per recuperare le foto e prendere in prestito il lasciapassare della stampa, si era intrufolata di nuovo nell'ufficio di Sexton per assemblare i duplicati delle buste e stampare copie degli assegni che attestavano i finanziamenti illeciti. Poi, dopo l'incontro al Washington Monument, aveva consegnato le copie degli assegni allo sbalordito senatore insieme alle sue richieste. "Dia al presidente la possibilità di spiegare i suoi errori sul meteorite, altrimenti verrà divulgato anche il resto." Sexton aveva dato un'occhiata al fascio di prove, poi si era chiuso nella sua limousine per allontanarsi in fretta. Da quel momento, era scomparso dalla circolazione.

Ora, mentre giungeva con il presidente alla porta sul retro della sala stampa, Gabrielle sentì il mormorio della folla in attesa. Per la seconda volta in ventiquattr'ore, il mondo si riuniva per ascoltare un messaggio speciale del presidente.

«Cosa dirà?» chiese Gabrielle.

Herney sospirò. La sua espressione era straordinariamente calma. «Col passare degli anni, ho notato più volte che…» Le mise una mano sulla spalla e sorrise. «… La verità è sempre la cosa migliore.»

Inaspettatamente, Gabrielle si sentì riempire d'orgoglio mentre lo guardava avanzare a grandi passi verso il podio. Zach Herney stava per ammettere il più grande errore della sua vita, eppure, stranamente, non era mai apparso tanto autorevole.

133

Quando Rachel si svegliò, la stanza era buia.

Le ventidue e quattordici, segnalava la scritta luminosa dell'orologio. Non era nel suo letto. Rimase immobile per alcuni momenti, chiedendosi dove si trovasse. Lentamente, tutto cominciò a tornarle alla memoria. Il megapennacchio… la mattinata al Washington Monument… l'invito del presidente di rimanere alla Casa Bianca.

"Sono alla Casa Bianca" si disse. "Ho dormito qui tutto il giorno."

L'elicottero della guardia costiera, su ordine del presidente, aveva trasportato gli esausti Michael Tolland, Corky Marlinson e Rachel Sexton dal Washington Monument alla Casa Bianca, dov'erano stati rifocillati con una sontuosa colazione, sottoposti a visita medica e avevano potuto scegliere di riposare in una delle quattordici camere da letto a disposizione degli ospiti.

Tutti e tre avevano accettato.

Rachel stentava a credere di avere dormito tanto. Accese la televisione e rimase sbalordita nel constatare che il presidente Herney aveva già concluso la conferenza stampa. Rachel e gli altri gli avevano offerto di stare al suo fianco mentre annunciava al mondo la deludente vicenda del meteorite. "Abbiamo commesso questo errore tutti insieme." Ma Herney aveva insistito per caricare l'intero fardello sulle proprie spalle.