«Merda!»
Il pallone di Mylar, come reazione per essere stato momentaneamente trattenuto, riprese a filare con maggiore forza, trascinandoli verso il mare. Si stavano avvicinando in fretta alla scogliera, anche se erano già in pericolo prima ancora di raggiungere il salto di trenta metri verso il mare Artico: tre enormi berme di neve si paravano di fronte a loro. Malgrado le tute imbottite, l'idea di sbattere ad alta velocità su quegli argini ghiacciati li riempiva di terrore.
Lottando disperatamente con l'imbracatura, Rachel cercava il modo per staccare il pallone. Fu allora che udì un ticchettio ritmico sul ghiaccio, lo staccato veloce del metallo leggero sulla lastra gelata.
La piccozza.
In preda al panico, aveva completamente dimenticato l'attrezzo di alluminio leggero appeso alla cintura che le rimbalzava contro la gamba. Guardò la fune del pallone: spessa, di nailon intrecciato, molto resistente. Trovata a tentoni la piccozza, ne afferrò il manico e lo tirò verso di sé, tendendo la corda elastica. Sempre sul fianco, cercò di sollevare il braccio sopra la testa per colpire con la lama dentellata la spessa fune. A fatica, cominciò a segare il cavo teso.
«Sì!» le gridò Tolland, anche lui in cerca della sua piccozza.
Rachel scivolava lateralmente, le braccia in alto, e continuava a segare. La fune era resistente e i fili di nailon stentavano a cedere. Tolland, con la sua piccozza, cercò di tagliare da sotto nello stesso punto. Le lame a banana cozzavano l'una contro l'altra mentre lavoravano in tandem come taglialegna. La fune cominciò a sfrangiarsi su entrambi i lati.
"Ce la faremo" pensò Rachel. "Riusciremo a tagliarla."
All'improvviso, la bolla argentata di Mylar davanti a loro si levò in alto, come investita da una corrente ascensionale. Rachel comprese con orrore che stava semplicemente seguendo il contorno del terreno.
Erano arrivati.
Le berme.
La parete bianca si profilò per un solo istante prima che vi fossero spinti contro. Rachel urtò il fianco con violenza e rimase senza fiato. Nel colpo, le sfuggì di mano la piccozza. Come uno sciatore d'acqua trainato su un salto, sentì il proprio corpo risalire la parete della berma e prendere il volo. Insieme a Tolland fu proiettata all'improvviso verso l'alto. L'avvallamento tra le berme si estendeva sotto di loro, ma la fune del pallone li tenne sollevati. Per un istante, videro cosa si stendeva davanti: altre due berme, un piccolo altopiano e poi il dirupo a picco sul mare.
Come a dar voce al muto terrore di Rachel, l'urlo acuto di Corky Marlinson lacerò l'aria. Dietro di loro, superò la prima berma, e a quel punto rimasero tutti e tre sospesi in aria, mentre il pallone continuava ad arrancare come un animale selvaggio che cerchi di liberarsi dei lacci del cacciatore.
D'un tratto, come uno sparo nella notte, un colpo secco echeggiò in alto. La fune sfibrata cedette e il capo sfilacciato colpì il viso di Rachel. Sopra le loro teste il pallone Mylar rigonfio, finalmente libero dal suo carico, volteggiò verso il mare.
In un groviglio di moschettoni e imbracature, Rachel e Tolland si sentirono precipitare al suolo. Davanti si ergeva il cumulo bianco della seconda berma e Rachel si preparò all'impatto, ma riuscirono a superarla per precipitare nel successivo avvallamento. Il colpo fu parzialmente attutito dalle tute e dal contorno discendente della berma. Mentre il mondo circostante si trasformava in una confusione di braccia, gambe e ghiaccio, Rachel si sentì scivolare giù fino alla parte centrale del solco. Istintivamente aprì gambe e braccia, cercando di rallentare prima di urtare contro la berma successiva. Sentì che perdevano velocità, ma solo leggermente, e qualche secondo dopo si ritrovò con Tolland a risalire un piano inclinato. In cima, vi fu un altro istante di assenza di peso mentre oltrepassavano la cresta. Poi, in preda al terrore, Rachel sentì che scendevano di nuovo verso l'ultimo pianoro… gli ultimi trenta metri della banchisa di Milne.
In volo verso la scogliera, Rachel si accorse che venivano rallentati dal peso di Corky, ma troppo poco e troppo tardi. Il bordo del ghiacciaio correva loro incontro. Rachel emise un grido disperato.
Poi accadde.
Precipitarono. L'ultima cosa che Rachel avvertì fu la caduta.
54
I Westbrooke Place Apartments, situati al 2201 di N Street NW, sono reclamizzati come uno dei pochi indirizzi indiscutibilmente "in" di Washington. Gabrielle superò di corsa la porta girevole dorata ed entrò nell'atrio, dove echeggiava un'assordante cascata.
Il portiere al banco della reception parve sorpreso di vederla. «Signora Ashe? Non mi hanno informato che sarebbe passata, oggi.»
«Sono in ritardo.» Gabrielle firmò il registro dei visitatori. L'orologio alla parete segnava le diciotto e ventidue.
Il portiere si grattò la testa. «Il senatore mi ha dato un elenco, ma lei non…»
«Dimenticano sempre la gente più vicina a loro.» Gli rivolse un sorriso veloce e si avviò di buon passo verso l'ascensore.
Il portiere appariva a disagio. «Meglio che chiami su.»
«Grazie» disse Gabrielle, salendo in ascensore. "Tanto il telefono è staccato."
Al nono piano, si inoltrò nell'elegante corridoio. In fondo, davanti alla porta di Sexton, uno dei corpulenti addetti alla sicurezza — le beneamate guardie del corpo — sedeva con aria annoiata. Non la sorprese vederlo in servizio, mentre lui sembrò molto stupito di vedere lei. Balzò in piedi.
«Lo so» lo anticipò Gabrielle, ancora a metà del corridoio. «È una serata IP e non vuole essere disturbato.»
La guardia annuì con enfasi. «Mi ha dato ordine di non fare entrare assolutamente…»
«È un'emergenza.»
L'uomo le bloccò la strada. «È impegnato in un incontro privato.»
«Davvero?» Gabrielle prese la cartellina che teneva sottobraccio e gli sbatté in faccia il sigillo della Casa Bianca. «Vengo adesso dallo Studio Ovale. Devo fare avere queste informazioni al senatore. I vecchi amici con cui spettegola stasera, di chiunque si tratti, dovranno fare a meno di lui per qualche minuto. Ora mi faccia entrare.»
La guardia sembrò intimidita alla vista del sigillo presidenziale.
"Non farmela aprire" pensò Gabrielle.
«Me la lasci. Gliela porto io.»
«Neanche per sogno. Ho ordini precisi di consegnargliela personalmente. Se non gli parlo al più presto, domattina dovremo cercarci tutti un altro lavoro. Mi ha capito?»
L'uomo parve profondamente dibattuto e Gabrielle si rese conto che Sexton doveva avere impartito direttive severe di sbarrare la porta a chiunque. Tentò il tutto per tutto. Tenendogli la cartellina davanti al viso, abbassò la voce e mormorò le cinque parole che tutti gli addetti alla sicurezza temevano di più: «Lei non capisce la situazione».
I responsabili della protezione dei politici non capivano mai la situazione e la cosa li mandava su tutte le furie. Erano guardie del corpo private, tenute all'oscuro di tutto, e non sapevano se attenersi rigidamente agli ordini o se avrebbero rischiato il posto ignorando testardamente un'evidente emergenza.
La guardia deglutì rumorosamente, lanciando un'altra occhiata alla cartellina della Casa Bianca. «D'accordo, ma dovrò far presente al senatore che lei mi ha costretto a lasciarla entrare.»
Aprì la porta e Gabrielle lo spinse di lato prima che cambiasse idea. Entrò nell'appartamento e la chiuse a chiave alle sue spalle, senza far rumore.
Nell'ingresso, udì provenire dal salotto di Sexton voci attutite: voci maschili. Quella serata IP non era il genere di incontro privato che lui aveva lasciato intuire nella sua telefonata.
Mentre si avvicinava alla sala, notò che in un armadio aperto era appesa una mezza dozzina di cappotti maschili molto costosi, cachemire e tweed. C'erano parecchie cartelle sul pavimento. Evidentemente, quella sera avevano lasciato fuori il lavoro. Stava per proseguire, quando una delle ventiquattrore attirò la sua attenzione. Una targhetta riportava il logo di una nota compagnia, un missile rosso fiamma. Si inginocchiò per leggere.