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«Non ci potrebbe essere uno sbaglio…?»

«No. Ho parlato proprio adesso con il presidente americano. Mi ha detto che stava sprecando quaranta preziosi secondi per avvertirmi dell’imminente lancio dei Cruise.»

Isaac Newton, che ora presenziava alla riunione, si trovò a parlare suo malgrado. «Fermateli!» disse in tono autoritario.

«Non so come posso…»

«Allora tenti. Metta in movimento tutte le forze armate necessarie», continuò Isaac Newton con lo stesso tono.

«Ma i russi…»

«I russi non ne ricaveranno alcun vantaggio perché il «fall-out» dei loro ordigni soffierà loro direttamente in faccia, i venti soffiano da occidente verso levante. Inoltre ci sono sommergibili in navigazione, più che in grado di rispondere per le rime. Le armi nucleari non sono destinate a essere usate. Esistono solo per non essere usate. E dica ai tedeschi di impedire che vengano lanciati i loro Pershing. Non dobbiamo fare «niente» di più, qualunque cosa sia successa.»

«Newton ha ragione, Primo Ministro», disse a questo punto il Cancelliere in tono pacato, facendosi avanti e prendendo per il braccio il Primo Ministro. «Proviamo, almeno.»

Quando il Primo Ministro e il Cancelliere si allontanarono per telefonare, Isaac Newton raggiunse il rettore intento a guardare la pozzanghera fangosa cui era ridotta la Great Square.

Lanciando un’occhiata in direzione della torre di Edoardo Terzo, dell’orologio che per tanti secoli aveva continuato a scandire le ore, le mezz’ore e i quarti d’ora, il rettore chiese: «Quanto tempo ci rimane?»

«Arriveranno prima che lei possa sentire di nuovo l’orologio», rispose Isaac Newton. «Ammesso che l’orologio suoni mai più.»

61

Per uno strano caso, le persone riunite nella Stanza Ovale erano le stesse che si erano riunite ll poche settimane prima. E, per un altro strano caso, adesso era il Segretario di Stato che aveva un potente raffreddore e non il Segretario per il Commercio; stavolta la signora sprizzava salute da tutti i pori. Era pettinata con una sofisticata acconciatura per l’occasione, e nelle guance spiccavano le fossette, fossette che le donavano particolarmente in televisione, per cui il Presidente avrebbe avuto difficoltà a licenziarla indipendentemente da ciò che usciva dalla sua bocca. Ed era probabile che dicesse cose terribili al generale a cinque stelle che se ne stava seduto lì soffiando nubi di fumo in direzione del Segretario di Stato, palesemente sconvolto.

Il direttore della CIA si stava domandando quanto, delle cose che conosceva in via segreta, poteva raccontare ai presenti senza infrangere i limiti della sicurezza, e quanto era saggio raccontare allo stesso Presidente. Tutti intorno al tavolo erano naturalmente a conoscenza della minacciosa mobilitazione dell’Armata Rossa, ma nessuno sapeva — si disse il direttore della CIA con una certa soddisfazione — della strana malattia che aveva recentemente colpito, con una sola eccezione finora nota, tutte le massime cariche del governo sovietico. Si trattava di un bocconcino che non andava distribuito alla leggera ai presenti, decise il direttore della CIA, nonostante fosse più che evidente che il Segretario di Stato aveva bisogno di essere confortato in qualche maniera.

La riunione ebbe inizio alle nove precise, corrispondenti alle quattordici dell’ora di Londra o alle sedici, ora di Mosca. Era effettivamente strano — considerato l’immenso numero di svitati sparpagliati in tutto il mondo — che nessuno avesse finora richiamato l’attenzione sul fatto che il confronto tra le superpotenze era alimentato in realtà dalle differenze tra i fusi orari. Poiché gli americani e i sovietici mangiavano, dormivano e lavoravano in ore così diverse della giornata, era fin troppo naturale che si considerassero appartenenti a una differente sottospecie dell’umanità. In una giornata qualsiasi esisteva ben difficilmente un momento nel quale il capo di stato americano potesse comunicare con quello sovietico senza che o l’uno o l’altro dei due fosse semiaddormentato, o senza che i loro rispettivi processi fisiologici si trovassero in fasi completamente diverse del ciclo quotidiano: uno con lo stomaco pieno, l’altro con lo stomaco vuoto. Così, per esempio, nel momento cui ci stiamo riferendo, il Presidente americano — trattandosi di un anno di elezioni — aveva dovuto accontentarsi di una prima colazione composta di una misera ciotola di cereali e latte scremato, mentre il Presidente sovietico, non fosse stato per il folle prurito, sarebbe stato intento a fare la siesta come un orso in piena ibernazione dopo un gargantuesco pranzo consumato sul tardi.

Ma la riunione nell’ufficio del Presidente era stata convocata senza alcun riferimento ad argomenti del genere. Il punto dolente era il minaccioso deficit del bilancio, una questione che poteva avere conseguenze piuttosto gravi e durature in un anno di elezioni. Il generale con cinque stelle stava all’erta per difendere i numerosi grossi finanziamenti concepiti dal Pentagono e dai suoi astuti consiglieri. In luogo del Segretario di Stato, avrebbe dovuto presenziare alla riunione il Segretario per il Tesoro, ma poiché aveva la febbre del fieno aveva chiesto al Segretario di Stato di sostituirlo, dato che questi era l’unico uomo a Washington di cui si fidasse, più o meno. Entrambi dirigevano ministeri tradizionali che avevano reso buoni servigi al governo della Repubblica per oltre il quarto di millennio della sua esistenza. E proprio per queste prestazioni fornite, i due dipartimenti venivano continuamente attaccati da comitati di recente formazione, da assistenti del Presidente e, tanto per essere precisi, da ogni «parvenu» politico che il prolifico sistema riusciva a generare. Per questo motivo era naturale che i responsabili dei due dipartimenti fossero alleati in funzione di custodi dell’America di una volta. Il direttore della CIA, invece, era presente perché gli piaceva sempre assistere quando c’era in ballo qualcosa.

«Le sarà gradito apprendere, signor Presidente, che il crac — non quello prodotto dai cereali quando vengono masticati — è distante, volendo essere cauti, almeno tanti anni quanto durerà in carica il prossimo Presidente», affermò il Segretario di Stato tirando su con il naso.

«Che cosa intende dire?» brontolò il generale a cinque stelle mentre emetteva dalla bocca una nube di fumo che saliva, trasformatasi in un anello, verso il soffitto.

«Intendo la bancarotta», replicò il Segretario di Stato in tono asciutto osservando l’anello di fumo in ascesa. Si chiese che cosa avrebbe detto il Presidente se lui si fosse difeso in futuro portando con sé una macchina per la produzione di fumo artificiale, capace di consumare chili di tabacco, che sprigionasse pestilenziali nubi di fumo in qualsiasi direzione grazie a un congegno di scarico azionato da un servomeccanismo.

«Siamo arrivati al venti per cento, a questo punto», osservò il Segretario per il Commercio con un luminoso sorriso, e le fossette ben in mostra perché aveva allargato la bocca proprio per ottenere quest’effetto.

«Venti per cento di che cosa?» chiese il Presidente.

«Venti per cento del bilancio, naturalmente. Assorbito dagli interessi del debito pubblico che arriva ora a uno virgola quattro trilioni di dollari, come ricorderà, signor Presidente. Tenendo conto del continuo aumento degli interessi, e calcolando il prossimo deficit in duecento miliardi, necessari solo per coprire le spese assolutamente essenziali del generale, i presenti scopriranno che gli interessi dovuti per il debito pubblico finiranno per consumare tra circa sette anni l’intero bilancio, a meno che il direttore della CIA riesca a far sospendere in qualche maniera le caratteristiche delle funzioni esponenziali», continuò il Segretario per il Commercio, sempre radiosa in volto.

«Escludendo a priori qualsiasi aumento delle imposte», aggiunse il Segretario di Stato, starnutendo.

Il Presidente scosse la testa vigorosamente quando sentì parlare di aumento delle imposte, e disse: «Sette anni sono tanti».