Frances Haroldsen era l’espressione tipica della ragazza americana come la immaginano al di qua dell’Atlantico, una ragazza sempre pronta a esclamare: «Chi gioca a tennis?» Portava i lunghi capelli lisci spioventi sulle spalle, nello stile «niente mi impressiona». Ma il guaio grosso, Isaac Newton lo vide subito, erano gli occhi di un viola intenso. Sapeva che erano di un viola intenso perché erano un tantino più scuri degli occhi azzurri di Featherstone. Non si poteva fare a meno di guardarli.
«E’ soddisfatto?» chiese Frances Haroldsen con freddezza. «Che cosa ne direbbe se dovesse lavorare in una sartoria femminile e tutte le donne continuassero a guardarla?»
«Chiedo scusa. Prometto che non la guarderò in continuazione.»
«Per essere precisa vengo da lei per tre motivi. Prima di tutto per ringraziarla. In secondo luogo per proporre un affare. In terzo luogo per chiarirle le idee su un paio di argomenti.»
«Sono sempre pronto a farmi schiarire le idee su un paio di argomenti, ma non riesco a immaginare che cosa ho fatto per meritare il suo ringraziamento, signorina Haroldsen.»
«Tutti qui mi chiamano Frances Margaret. Sai che mi piacerebbe mettere le mani su quel tipetto, Scuby? Vorrei strozzarlo», disse lei, ignorando la domanda rivoltale da Isaac Newton.
«Ce ne sono molti che vorrebbero farlo. Ma che te ne importa di Jocelyn Scuby, Frances Margaret?»
«’Un tipo che per dar bella prova di sé parla senza riuscire a conquistarsi l’udienza di alcuno.’ Shakespeare, e Shakespeare era un poeta migliore di Congreve. Ma volevo ringraziarti per quello che hai detto a proposito del mio «curriculum» accademico. Quando la gente lo legge, dice di solito: ’Naturalmente «deve» essere andata a letto con gli esaminatori’.» Frances Margaret sedette sull’angolo della scrivania e soggiunse: «Un’osservazione stupida e malvagia, perché se fosse veramente così facile, ci sarebbero molte più laureate con il massimo dei voti e lode, non ti pare?»
Isaac Newton aprì la bocca, ma poi dimenticò ciò che voleva dire. Improvvisamente chiese, invece, a voce più alta: «Come fai a sapere tutto questo?»
In risposta, Frances Haroldsen estrasse un piccolo e lucido oggetto metallico da una tasca dei pantaloni. All’oggetto era attaccata una cordicella di colore scuro.
«In quest’ufficio c’è un microfono, naturalmente», disse.
«C’è «che cosa»?»
«Un microfono. Così tutti nel laboratorio sanno quello che succede. Io volevo essere informata soprattutto su Clamperdown. Quella faccenda del CERC non mi piace.»
«Senti, Frances Margaret, adesso mi devi consegnare subito il nastro con quella registrazione.»
«Te ne posso dare una copia, naturalmente. Mi è piaciuta la battuta sull’«Orangensaft». Mi ha dimostrato che sai tenere testa.»
Isaac Newton cominciava a capire molto bene perché le attività della signorina Frances Haroldsen avessero provocato le proposte di licenziamento.
Come se gli leggesse nel pensiero, lei, sempre seduta sull’angolo della scrivania, riprese: «Parliamo ora di queste proposte di licenziamento. E’ stato molto carino da parte tua non tenerne conto. Ma tu sei carino, no?»
«Non me n’ero mai accorto», brontolò Isaac Newton.
«Beh, lo sei. Abbastanza. Ma è davvero un po’ tardi. Il fatto che tu sia carino, voglio dire. Vedi, io sono abbastanza stufa di tutta questa storia. E’ per questo che voglio mettermi d’accordo con te. Se sei disposto a raccomandarmi per un trasferimento al CERN, me ne andrò senza tante storie.»
«Non riesco a seguirti, Frances Margaret.»
«E’ un buon affare. Me ne andrò senza protestare. Se dovessi fermarmi qui per tenere testa all’amministrazione, lo scontro sarebbe alquanto duro. Sono piuttosto brava a battermi. Ti prometto di non farti fare brutta figura al CERN. Del resto, le mie qualifiche sono abbastanza buone, lo hai detto tu stesso.»
«Ma io non propongo il tuo licenziamento», tuonò Isaac Newton.
«No, ma lo proporrai. Tutti lo fanno, prima o poi.»
«Allora, perché vuoi ricominciare tutto da capo al CERN?»
«Penso che là tutto andrebbe diversamente. Il CERN, tanto per cominciare, non ha il solito ultratradizionale atteggiamento contrario alle donne. Inoltre si tratta di un’organizzazione più grande di questo laboratorio per cui penso di riuscire a inserirmi con maggiore facilità.»
«Sono certo che ci riusciresti», annuì Isaac Newton, evitando di menzionare l’opinione di Scuby sulla sua figura. «Ma questo patto infame non si farà», continuò. «Non appena avrò avuto l’opportunità di giudicare il tuo lavoro, ti raccomanderò se il tuo rendimento sarà quello che mi aspetto. Se allora vorrai ancora andartene, naturalmente. E adesso, qual era il terzo problema? Si tratta di un consiglio, immagino.»
«Sì, penso che dovrei dirti alcune cose che Mike Howarth non ha detto. Non sono affatto indiscreta perché lui ne parla sempre. Il guaio è che di questi tempi pensa solo al CERC invece di concentrarsi sulle cose veramente importanti. Tu hai detto che ha una probabilità su cento di riuscire. In base a quanto ti ha fatto vedere ieri il giudizio potrebbe sembrare ragionevole, ma se tu sapessi tutto ciò che potrei dirti con questo labbro vermiglio — ha detto proprio labbro vermiglio; no? — vedresti che una probabilità su cento è un po’ poco.»
Frances Haroldsen fece una breve pausa.
«Beh, continua», disse Isaac Newton, impaziente.
«Il fatto è che l’argomento è grosso e che ora comincia a farsi tardi. Se tu volessi portarmi a cena stasera, tutta la faccenda sarebbe un eccellente argomento per un intimo «tête-à-tête». Gradevole e tecnico senza niente di personale, se non ti dispiace.»
10
Isaac Newton portò la macchina all’autosilo nella Jesus Lane e da lì andò a piedi, superando il Saint John’s College, al Trinity. La Great Square del College, quando vi entrò, gli apparve in tutta la sua ampiezza. Nei tredici anni trascorsi dall’ultima volta, gli era uscita di mente la spaziosa magnificenza di quel piazzale. Era praticamente rimasto immutato dai tempi del grande Isaac Newton il cui alloggio si trovava proprio sulla destra del cancello principale.
Varie persone stavano attraversando il piazzale camminando a zig-zag per evitare le macchie di erba tagliata. Come sempre, gli individui sembravano ridimensionati a formiche dalle proporzioni dell’ambiente. «Plus ça change, plus c’est la même chose».
Isaac Newton aveva cenato al College la sera precedente. Prima del pasto, i Fellows, cioè i cattedratici, si erano radunati nella Combination Room. Portavano tutti la toga nera. C’erano i bicchierini di sherry e la conversazione si svolse esattamente sui binari che Isaac Newton ricordava. Poi erano saliti alla sala da pranzo. In segno di rispetto per il suo incarico, già ricoperto da J. J. Thompson ed Ernest Rutherford, e in vista della sua condizione di figliol prodigo, gli avevano assegnato il posto accanto al Master, rettore del collegio, anziché piazzarlo in fondo alla tavola tra i più giovani professori residenti, come gli era capitato negli anni precedenti. Gli fu facile partecipare alla conversazione di prammatica pensando nel contempo ad altro o porgendo orecchio a ciò che i commensali seduti a qualche posto di distanza stavano dicendo.
«Vedi, mi era venuta l’idea di esaminare la documentazione delle carboniere che sono salpate nel Cinquecento da Newcastle.»
«Schubert? Oh, quei legni tanto, tanto noiosi!»
«Che cravatta è questa?»
«Hanno detto di essere stati a Maiorca, ma io non ci credo. Chi ci crederebbe, del resto?»