L’uomo con la documentazione delle carboniere salpate da Newcastle era un anziano professore di storia che durante tutto il pasto continuò a trasformare in palline la mollica del pane. Non appena finiva un panino, il cameriere gliene portava un altro. Era uno della decina di Fellows che Newton ricordava bene. Mentre osservava i camerieri che andavano su e giù tra la sala e la cucina con pile di piatti sulle braccia, gli parve di riscontrare una rassomiglianza capovolta con la vecchia favola della Bella Addormentata. Una scena movimentata in cui il tempo si ferma improvvisamente e tutto rimane sospeso a mezz’aria, tutto fino all’ultimo particolare. Solo che nella vecchia favola nessuno invecchiava mentre il tempo era fermo. Qui era esattamente il contrario: tutti invecchiavano, ma non succedeva mai nulla. Ai vecchi tempi, nei giorni del grande Isaac Newton, era la vita nel College quella che sembrava scattante e frizzante, in contrasto con il mondo bucolico all’esterno. Ora, invece, era fuori che tutto procedeva a ritmo accelerato, era fuori che succedevano tante cose, come i «vacuum strings» o le comete vive.
Arrivato a questo punto nelle sue riflessioni, Isaac Newton aveva deciso di prendere in affitto la casa nella Adams Road, perché persino un gatto con i brividi era «qualcosa». Come dice Achille nell’«Odissea», quando si trova negli Inferi?
La cena con Frances Haroldsen sarebbe stata un’altra cosa, senza dubbio, pensò Isaac Newton mentre attraversava il grande piazzale fino agli scalini che portavano alla Hall. Dopo aver superato rapidamente il breve passaggio tra la Hall e la cucina, scese gli scalini verso il chiostro che portava alla Wren Library. In fondo al chiostro raggiunse la scala che conduceva alla vecchia foresteria.
Ancora una volta, la situazione si presentò capovolta. Il suo appartamento a Ginevra era piccolo, ma provvisto delle più moderne ed efficienti attrezzature. Qui, invece, i locali erano, come sempre, spaziosi, ma provvisti di un arredamento che destò la meraviglia di Isaac Newton il quale si domandò come chiunque, in un’epoca qualsiasi, avesse potuto considerarlo una buona idea. Poteva essere un argomento eccellente per la tesi di laurea in filosofia: «Gli impianti igienici a Cambridge» per qualche studente delle facoltà umanistiche. Infatti, se opportunamente imbottita e presentata, quella tesi avrebbe rappresentato un argomento quasi perfetto per assicurarsi un sussidio dalla Fondazione Ford, un’istituzione animata dalla sorprendente tendenza a finanziare le iniziative irrilevanti.
Benché di alta statura, Isaac Newton ebbe la sensazione di essere semiannegato quando emerse dalla vasca da bagno, più che altro simile a una tinozza. In camera da letto c’erano un grande letto a baldacchino e un immenso e pesante guardaroba che avrebbe richiesto un’intera squadra di uomini robusti per essere smosso. Dati i tempi incerti, il College non voleva evidentemente correre rischi con i mobili, un punto di vista per il quale Isaac Newton si propose di congratularsi con l’economo.
Mancava un’altra ora all’incontro con Frances Margaret Haroldsen al cancello principale. Dopo essersi vestito, Isaac Newton trascorse i primi quaranta minuti restando seduto, in preda a una specie di torpore. In che razza di pasticcio si era cacciato? si chiese seriamente. Una faccenda che faceva venire qualche brivido di paura. Il mondo che lo circondava era realmente così strano — volendo usare un eufemismo — come sembrava, o era lui che in certo modo stava proiettando intorno a sé una sorta di follia nata nel suo intimo? Nel ricordare il volto simile a una maschera tragica greca che gli era apparso gli sembrò che le cose stessero proprio così. Dopo aver scacciato dalla mente questi inquietanti pensieri, balzò in piedi e uscì sul pianerottolo della vecchia foresteria scendendo poi a passo svelto la scala fino al chiostro.
Il grande orologio sulla torre di Edoardo Terzo stava battendo le sei e tre quarti mentre Isaac Newton riattraversava la Great Square. Mancavano ancora quindici minuti all’appuntamento. Continuando a camminare arrivò alla cappella del College, subito accanto alla torre di Edoardo Terzo. Non lo interessava l’interno della cappella, ma il grande atrio con il pavimento a lastre di pietra dove si trovava la statua del suo omonimo, il grande Isaac Newton, che aveva superato tutti con il suo genio, come diceva l’iscrizione in latino: «Qui genus humanum ingenio superavit».
C’erano altre statue nell’atrio. Newton sfiorò con lo sguardo quelle dei due grandi dell’epoca vittoriana, Tennyson e Macaulay, uomini dalle facce poco interessanti che simbolizzavano il prossimo declino di una nazione una volta grande, la caduta verso quella situazione, capovolta rispetto alla favola, in cui tutti invecchiavano senza che accadesse mai nulla.
Tra la statua sul piedestallo sopraelevato e le altre correva una distanza astronomica, la stessa che si riscontra tra quella e i ritratti di Newton realizzati in epoca successiva, quand’era Master of the Mint, direttore della Zecca. Davanti a sé aveva un uomo giovane come lui, con la faccia piena di vita e il corpo in movimento mentre camminava per la strada, in campagna o sul grande piazzale. Quella pietra sprigionava con magica urgenza una sensazione di vita. William Wordsworth era stato studente al vicino Saint John, e dalla sua stanza a uno degli ultimi piani, nelle notti di luna, poteva arrivare con lo sguardo all’atrio della cappella del Trinity College, alla statua dell’uomo che aveva superato tutti gli altri con il suo genio. Wordsworth aveva percepito la magia di questa visione quando aveva scritto:
Strani mari del pensiero, la quintessenza della scienza. Non era l’atteggiamento saccente dei piccoli uomini le cui cognizioni in realtà altro non erano che un’isoletta in un ampio oceano della cui esistenza non riuscivano a rendersi conto.
11
Le sette di sera sono un’ora di ressa al cancello principale di qualsiasi collegio universitario, con gli studenti e i professori che continuano ad andare e venire con l’avvicinarsi dell’ora di cena. Di tutti i college di Cambridge, poi, l’ingresso del Trinity è forse il più affollato.
Mentre usciva, ad Isaac Newton venne in mente che non avrebbe potuto fare di meglio per propalare ai quattro venti la notizia del suo appuntamento con Frances Haroldsen. E non ci voleva un genio per immaginare che sarebbe arrivata all’appuntamento con un’automobile che desse nell’occhio. Era infatti una decappottabile rossa, sportiva, una macchina palesemente stagionata che richiamava l’attenzione non solo per l’aspetto bohémien, ma anche per il gorgogliante borbottio che emetteva mentre si dirigeva a velocità sostenuta dal Saint John verso di lui. Gli uomini di statura elevata hanno di solito difficoltà a infilarsi in una piccola macchina sportiva, né Isaac Newton fece eccezione. E se le sue contorsioni non fossero state sufficienti per segnalare l’avvenimento a parecchi professori anziani del College — tra cui quello delle molliche di pane che per disgrazia arrivò proprio in quel momento — il rombo dello scarico con il quale la macchina investì, sprezzante, la gente intorno mentre riprendeva velocità nella direzione del Caius fu un degno coronamento della situazione. Così parve, per lo meno, a Isaac Newton.
«Dove hai trovato questa stupenda macchina, Frances Margaret?» le chiese mentre si fermavano per un attimo al semaforo della Chesterton Lane.
«L’ho comprata per dieci sterline da uno sfasciacarrozze che a sua volta l’aveva comprata dagli zingari. Gli zingari non sapevano più che cosa farsene perché il monoblocco era pieno di crepe e il cambio scassato. Sai, loro s’intendono meglio di cavalli.»