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Il Primo Ministro sorrise senza allegria. «Tramite l’amministrazione dello Stato o con l’aiuto di comitati di ricerca ufficialmente costituiti con l’approvazione del Parlamento.»

«Mi sembra ragionevole, sotto un certo punto di vista.»

«Sì, è una procedura che tiene lontani i ciarlatani e i gabbamondo. Con questo non voglio dire, naturalmente…»

Congratulandosi per aver eluso la questione della cattedra a Cambridge, Isaac Newton si affrettò a dire: «Posso capire anche questo. Ma non esiste così il pericolo che lei venga manipolato? Chiedo scusa se sono così esplicito».

Il Primo Ministro si scosse.

«Lei può essere esplicito finché vuole. Effettivamente «sono soggetto» a manipolazioni. Qualsiasi primo ministro ne è vittima. E’ per questo che i manipolatori si mettono a strillare come dannati quando non seguo lo schema. E’ per questo che il Foreign Office protesta a squarciagola contro la sua relazione. Secondo il ministero degli Esteri si tratta di un documento che esce dal seminato. A proposito: perché lo ha mandato con la valigia diplomatica?»

«Perché non pensassero che sarei venuto a Londra.»

«Gran Dio! Lei è sospettoso quanto me. E la cosa che fa più andare in bestia è il fatto che hanno tutto organizzato in maniera tale da impedire praticamente qualsiasi reazione. Sì, si può dare un colpetto di qua, un colpetto di là, ma non si può fare come il giardiniere che può rimettere a posto le cose con una buona potatura generale. Così io mi sfogo con le mosche. Le mosche non influenzano i sondaggi d’opinione, non ancora, comunque. Ma per ritornare a Cambridge — lei è sgusciato tra le maglie in maniera molto astuta — io ho bisogno di qualcosa per giustificare la posizione al CERN. Di un argomento solido che mi consenta di discutere. Qualcosa come il suo ritorno a Cambridge.»

Isaac Newton capì che era arrivato il momento cruciale, che doveva puntare mani e piedi se non voleva farsi sopraffare.

«Continuo ad avere la sensazione», rispose, «che sarebbe come pagare due volte la stessa merce: la prima volta con la relazione, la seconda con il ritorno a Cambridge.»

«In tal caso, lei sarebbe in credito, non le pare?» rispose rapido il Primo Ministro.

Dopo un attimo di silenzio, Isaac Newton riprese a difendersi come meglio poteva: «Potrò apparirle venale, signor Primo Ministro, ma le dispiacerebbe precisare meglio?»

Questa volta toccò al Primo Ministro concedersi una pausa di riflessione. La conversazione venne interrotta da un lieve bussare alla porta, che offrì al Primo Ministro una facile via d’uscita.

«Ah, dev’essere Pingo. Dio, come passa il tempo! Il Qatar incombe su di noi.»

Si udì di nuovo bussare. Quando nessuno entrò nonostante l’invito del Primo Ministro, Isaac Newton andò alla porta e l’aprì, e il Primo Ministro ebbe la sensazione che egli fosse inciampato in qualcosa.

Fuori c’era davvero Pingo che, afferrando Isaac Newton per il braccio, gli chiese in tono preoccupato: «C’è qualcosa che non va, dottor Newton?»

«No», rispose lui, raddrizzandosi. «Credo di essere inciampato, ecco tutto.»

«C’è un piccolo rialzo sulla soglia», fece la voce del Primo Ministro alle sue spalle. «E’ una bella seccatura, ma non c’è modo di eliminarlo. Il rialzo nel quale tutti inciampano sulla soglia dell’ufficio del Primo Ministro è diventato addirittura una tradizione.»

Pingo Warwick non ne era così sicuro.

«La macchina aspetta. E’ sicuro di sentirsi bene, dottor Newton?»

Ancora una volta, dietro di lui si udì la voce del Primo Ministro: «Certo che si sente bene. Perché non dovrebbe sentirsi bene? Quanto tempo mi rimane per andare a colazione, Pingo?»

«Circa mezz’ora.»

«Accidenti, devo affrettarmi.»

Il Primo Ministro raggiunse Isaac Newton e Pingo Warwick nel corridoio.

Dopo aver stretto la mano del fisico, il Primo Ministro sorrise e disse: «Beh, la ringrazio molto, dottor Newton. Spero di poterla chiamare professor Newton la prossima volta che ci incontreremo. Professor Isaac Newton».

Il Primo Ministro sorrise di nuovo.

«Beh, «bon voyage» e grazie ancora per la relazione. E’ proprio come la volevo.»

Dieci giorni più tardi, Isaac Newton era seduto al sole del tardo pomeriggio sulla veranda dello châlet di Waldheim a Wengen da dove lo sguardo poteva spaziare sull’immensa valle del Lauterbrunnen. Le cime più elevate dell’Oberland spiccavano già bianche sotto la prima neve dell’inverno imminente. Sul tavolo c’erano vari bicchieri e una bottiglia di vino mezza vuota. Rosie, la moglie di Kurt, stava preparando la cena.

Kurt Waldheim prese in mano un bicchiere.

«Il vino si gusta particolarmente al termine della giornata.»

«Sì», convenne Isaac Newton, prendendo a sua volta in mano il bicchiere. «Temo di non essere stato proprio in forma negli ultimi tempi, Kurt.»

«Eri un po’ assente, mi pare.»

Isaac Newton contemplò per un po’ il proprio bicchiere e a un tratto proruppe: «Ho accettato la cattedra a Cambridge».

Kurt Waldheim alzò lo sguardo verso le montagne e disse in tono pacato: «Me lo stavo domandando».

«Il vino minaccia di sciogliermi la lingua. Ecco, vedi, Kurt, all’inizio avevo intenzione di rifiutare. Poi, improvvisamente, ho cambiato idea, come se qualcosa mi avesse indotto a farlo.»

«Come sarebbe a dire che qualcosa ti ha indotto a cambiare idea?»

«Voglio dire che ho cambiato idea senza poter esercitare alcuna influenza sulla decisione. O così mi è sembrato.»

Kurt Waldheim fece una smorfia e raddrizzò il ciuffo di capelli che minacciava, come sempre, di cadergli sulla fronte.

«Non è da te, Isaac. Ho sempre pensato che tu fossi in grado di esercitare il controllo su qualsiasi cosa.»

«Infatti», rispose Isaac Newton bevendo di nuovo un sorso di vino. «Vorrei farti una domanda assurda, Kurt. Provo imbarazzo nel fartela, ma, visto che ho accennato a questa faccenda, è meglio che…»

«E’ meglio che cosa?»

«… che ti chieda se credi nei fantasmi.»

Kurt Waldheim fu colto così alla sprovvista da mordersi le labbra per la sorpresa.

««Geister!»» esclamò.

«Vedo che non credi nei fantasmi. Neppure dopo aver bevuto una bottiglia di vino.»

«Francamente, no.»

«Nemmeno io», convenne Isaac Newton. «Eppure ho visto quel coso enorme. Non era pallido né sfumato come lo raffigurano nei libri, era lucente e sprigionava un bagliore rosso-arancione. Avrei dovuto essere cieco per non vederlo.»

«Senti, Isaac, sei andato dal medico?»

«No.»

«Forse dovresti farti visitare.»

«Non l’ho fatto un po’ perché mi sento imbarazzato.»

«Non preoccupato?»

«Sono più perplesso che preoccupato. Capisci, è stato proprio nel momento in cui ho visto quella cosa che la mia decisione circa il posto di Cambridge ha fatto una specie di salto quantistico.»

Kurt Waldheim aggrottò le sopracciglia.

«Ci dev’essere un’altra spiegazione.»

«Come il «déjà vu»? Provocato da uno stress del momento? Francamente, Kurt, a una spiegazione semplicistica come questa posso arrivare anche da solo.»

«Dev’essere stata una specie di tempesta. Una tempesta, penso, durante la quale hai deciso di fare ciò che realmente volevi.»

Isaac Newton sollevò lo sguardo verso le montagne e scosse la testa dicendo: «Ciò che non capisco è perché il cervello in tempesta abbia prodotto ciò che ho visto, o ciò che penso di aver visto».

«Perché no, Isaac?»

«Era la faccia. Anche con la fantasia spinta oltre ogni limite non credo di aver potuto immaginare una faccia come quella.»

«Com’era questa faccia?»