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«No.»

«Allora siamo perduti», concluse Stefan in tono triste.

Laura ascoltò la pioggia, che nella sua mente si trasformò nel rombo dei bombardieri della seconda guerra mondiale e poi nel suono di una folla acclamante, impazzita.

Alla fine disse: «Ma anche se riusciamo a organizzare tutto senza che Thelma corra dei rischi, che cosa succederà se le SS la stanno controllando? Devono certamente sapere che è la mia migliore amica… la mia unica, vera amica. Chi mi dice che non abbiano già mandato una delle loro squadre nel futuro, giusto per tenerla d’occhio nella speranza che li porti sulle mie tracce?»

«Perché questo comporta un inutile spreco di tempo», replicò Stefan. «Loro manderanno semplicemente delle squadre nel futuro, nel mese di febbraio di quest’anno e poi in marzo e in aprile, mese dopo mese, per controllare i giornali, finché non trovano una notizia che li porti sulle nostre tracce. Ricordati che per ogni viaggio impiegano solo undici minuti nel loro tempo. Perciò è molto veloce. E questo sistema quasi certamente darà i suoi frutti prima o poi, perché dubito che potremo rimanere nascosti per il resto dei nostri giorni.»

«Be’…»

Stefan attese pazientemente, poi a un certo punto disse: «Voi due siete come sorelle, e se non puoi confidare nell’aiuto di una sorella in momenti come questi, a chi altri puoi rivolgerti, Laura?»

«Se possiamo ottenere l’aiuto di Thelma senza farle correre alcun rischio… credo che dovremmo provare.»

«Questa sarà la prima cosa che dovremo fare domani mattina», disse Stefan.

La pioggia continuò a cadere per tutta la notte e riempì anche i suoi sogni. Sogni tormentati da tremendi tuoni e lampi. Si svegliò in preda al panico, ma la notte piovosa a Santa Ana non era disturbata da quei luminosi e tonanti presagi di morte. Era un temporale relativamente tranquillo, senza tuoni, senza lampi e senza vento, anche se Laura sapeva che non sarebbe sempre stato così.

3

I macchinari ticchettavano e ronzavano.

Erich Klietmann guardò l’orologio. Fra tre minuti il gruppo di ricerca sarebbe tornato all’istituto.

Due scienziati, gli eredi di Penlovski, Januskaya e Volkaw, erano davanti alla consolle di programmazione, intenti a studiare le miriadi di grafici e di indicatori.

La luce nella stanza era innaturale, perché le finestre non erano state semplicemente oscurate per evitare che fornissero un’indicazione ai bombardieri nemici durante i voli notturni, ma erano murate all’interno per ragioni di sicurezza. L’aria era pesante.

Fermo in un angolo del laboratorio principale, accanto al tunnel, il tenente Klietmann pregustava il suo viaggio nel 1989 con grande eccitazione, non perché quel futuro fosse pieno di meraviglie, ma perché la missione gli dava l’opportunità, che pochi uomini avevano avuto, di servire il Führer. Se fosse riuscito a uccidere Krieger, la donna e il bambino, avrebbe avuto un incontro personale con Hitler, la possibilità di vedere quel grande uomo a faccia a faccia, toccare la sua mano e attraverso quel tocco sentire il potere, il tremendo potere dello Stato, del popolo, della storia e del destino tedesco. Il tenente avrebbe rischiato la vita dieci volte, mille volte, pur di poter attirare su di sé l’attenzione personale del Führer, pur di fare in modo che Hitler si accorgesse di lui, ma non semplicemente come uno degli ufficiali delle SS, bensì come individuo, come Erich Klietmann, l’uomo che salvò il Reich da un terribile destino.

Klietmann non era certo un perfetto esemplare della razza ariana ed era perfettamente consapevole dei suoi difetti fisici. Il nonno materno era polacco, un disgustoso incrocio slavo a causa del quale Klietmann era solo per tre quarti tedesco. Inoltre, anche se gli altri tre nonni e i genitori erano biondi, con gli occhi azzurri e con tratti nordici, Erich aveva occhi color nocciola, capelli scuri e i lineamenti marcati di quel selvaggio di suo nonno. Klietmann si detestava e per compensare i difetti fisici cercava di essere il nazista più vigile, il soldato più coraggioso e il più acceso sostenitore di Hitler in tutta la Schutzstaffel, compito assai arduo perché molti ambivano a quell’onore. A volte aveva persino disperato di poter conquistare la gloria. Ma non si era arreso mai e ora eccolo lì, a soli due passi dal successo.

Voleva uccidere Stefan Krieger personalmente, non solo perché si sarebbe guadagnato i favori del Führer, ma perché Krieger era il perfetto ariano, biondo, con gli occhi azzurri, i tratti nordici e di razza pura. Con tutti i vantaggi dalla sua parte l’odioso Krieger aveva scelto di tradire il suo Führer e questo faceva impazzire di rabbia Klietmann, che invece doveva lottare.

Ora, quando mancavano solo due minuti al rientro del gruppo di ricerca, Klietmann guardò i tre subordinati, tutti vestiti come giovani dirigenti di un’altra era e sentì nascere dentro di sé un senso di orgoglio tale che quasi si commosse.

Tutti avevano origini umili. Unterscharführer Felix Hubatsch, il sergente di Klietmann, era figlio di un operaio alcolizzato e di una madre sciattona, che lui disprezzava. Rottenführer Rudolph von Manstein era figlio di un povero contadino, la cui vita fallimentare lo faceva vergognare. Rottenführer Martin Bracher era orfano. Nonostante provenissero da quattro zone diverse della Germania, i due caporali, il sergente e il tenente Klietmann avevano in comune una cosa che li rendeva come fratelli: avevano compreso che il legame più vero, più profondo e più caro di un uomo non era nei confronti della famiglia ma dello Stato, della patria e del suo capo. Lo Stato era l’unica famiglia che importasse. Questo frammento di saggezza li elevava e li rendeva degni padri della futura razza superiore.

Klietmann si sfiorò gli angoli degli occhi con il pollice, asciugandosi le lacrime che non era riuscito a trattenere.

Ancora un minuto e il gruppo di ricerca sarebbe tornato.

I macchinari ticchettavano e ronzavano.

4

Alle tre di venerdì pomeriggio del 13 gennaio, un camioncino bianco entrò nel piazzale del motel, si diresse direttamente verso l’ala posteriore e parcheggiò accanto alla Buick che portava le targhe di una Nissan. Il camioncino doveva avere circa cinque o sei anni. La portiera dalla parte del passeggero era ammaccata e sulla lamiera ricurva si vedevano macchie di ruggine. Il proprietario evidentemente stava risistemando il camioncino poco per volta, perché alcuni punti erano stati ritoccati, ma non ancora ridipinti.

Laura osservò il camioncino da dietro le tende appena scostate della finestra della stanza. In una mano teneva l’Uzi.

I fari del camioncino si spensero, i tergicristalli si arrestarono e un attimo dopo una donna dai capelli biondi e ricci uscì e si diresse verso la porta di Laura. Bussò tre volte.

Chris era dietro la porta e guardava sua madre.

Laura annuì con la testa.

Chris aprì la porta e disse: «Ciao, zia Thelma. Accidenti, che parrucca orribile!»

Thelma entrò e stringendo a sé Chris replicò: «Be’, grazie tante. E che cosa mi racconti se ti dicessi che quella specie di proboscide con cui sei nato te la devi proprio tenere, mentre io la parrucca me la posso togliere quando voglio, eh? Che cosa mi racconti adesso?»

Chris ridacchiò. «Nulla. Perché so di avere un bel nasino.»

«Bel nasino? Quanto sei presuntuoso!» Lasciò Chris, lanciò un’occhiata furtiva a Stefan Krieger, che era seduto in una delle poltrone accanto alla televisione, poi si rivolse a Laura: «Shane, hai visto con che roba sono arrivata? Sono o non sono intelligente? Mi stavo infilando nella mia Mercedes quando mi sono detta: Thelma — mi chiamo sempre con il mio nome — attirerai l’attenzione di tutti se arrivi in quel motel da quattro soldi con una macchina da sessantacinquemila dollari! Allora ho pensato di prendere in prestito la macchina del maggiordomo. Ma tu sai che macchina ha lui? Una Jaguar. A quel punto ho dovuto farmi prestare il camioncino del giardiniere ed eccomi qui. Che cosa ne pensi di questo travestimento?»