Forse la cosa più difficile da pensare, per lei, era che stava guardando un estraneo. Molto di rado aveva visto qualche estraneo. Le pareva che dovesse essere uno dei custodi… no, uno degli uomini che vivevano oltre il muro, un capraio o una guardia, uno schiavo del Luogo; ed era venuto a vedere i segreti dei Senza Nome, forse a rubare qualcosa nelle tombe…
A rubare qualcosa. A derubare le Potenze delle Tenebre. Sacrilegio: quella parola affiorò lenta nella mente di Arha. Era un uomo, e nessun uomo doveva mai porre piede nelle tombe, nel Luogo Sacro. Eppure lui era penetrato nella cavità che era il cuore delle tombe. Era entrato. Aveva portato la luce dove la luce era proibita, dove non c’era mai stata dall’inizio del mondo. Perché i Senza Nome non l’avevano annientato?
Adesso l’uomo s’era fermato a guardare il pavimento roccioso, che era accidentato e screpolato. Si vedeva che era stato aperto e richiuso. Le zolle sterili scavate per le fosse non erano state spianate completamente.
I Padroni di Arha avevano divorato quei tre. Perché non divoravano anche costui? Cosa potevano attendere?
Spettava alle loro mani agire, alla loro lingua parlare…
— Vattene! Vattene! — urlò Arha all’improvviso, con tutta la forza della sua voce. Grandi echi stridettero e tuonarono nella caverna, e parvero oscurare il volto sbalordito che si girò verso di lei e che per un momento, attraverso lo sconvolto splendore della grotta, la scorse. Poi la luce scomparve. Lo splendore svanì. Tenebra cieca, e silenzio.
Adesso Arha poteva pensare di nuovo. Era libera dal sortilegio della luce.
Doveva essere entrato dalla porta nella roccia rossa, la Porta dei Prigionieri, e quindi avrebbe cercato di fuggire da là. Leggera e silenziosa come i gufi dalle ali vellutate, Arha fece di corsa il mezzo giro della caverna fino alla bassa galleria che conduceva alla porta apribile solo dall’esterno. Si chinò, all’imboccatura del corridoio. Non c’erano correnti d’aria che provenissero dall’esterno: l’uomo non aveva fissato la porta perché rimanesse aperta. Era chiusa; e se lui si trovava nel corridoio, era in trappola.
Ma non era nel corridoio. Arha ne era certa. Così vicino, in quello spazio limitato, avrebbe udito il suo respiro, il calore e la pulsazione della sua vita. Nel corridoio non c’era nessuno. Si rialzò e rimase in ascolto. Dov’era andato?
La tenebra le premeva sugli occhi come una benda. Aver visto la cripta la confondeva; era frastornata. L’aveva conosciuta esclusivamente come una regione definita dall’udito, dal tocco della mano, dai soffi d’aria fresca nell’oscurità: un’immensità, un mistero che non avrebbe mai visto. Adesso l’aveva vista, e il mistero aveva lasciato posto non già all’orrore ma alla bellezza, un mistero ancora più profondo di quello della tenebra.
Avanzò lentamente, insicura. A tentoni, si avviò verso sinistra, verso il secondo corridoio, quello che conduceva nel labirinto. Poi si fermò e ascoltò.
I suoi orecchi non le dissero più di quanto le dicessero gli occhi. Ma mentre stava ritta, toccando con le mani i due lati del varco nella roccia, sentì nella pietra una fioca e oscura vibrazione, e nell’aria fresca e stantia c’era la traccia di un odore che lì non doveva esserci: l’odore della salvia selvatica che cresceva sulle colline del deserto, lassù, sotto il cielo aperto.
Arha avanzò lenta e silenziosa nel corridoio, seguendo l’olfatto.
Dopo un centinaio di passi, l’udì. L’uomo era silenzioso quasi quanto lei, ma nella tenebra il suo passo era meno sicuro. Arha udì un lieve scalpiccio, come se quello avesse incespicato sul pavimento irregolare e subito si fosse ripreso. Null’altro. Attese per qualche attimo e poi proseguì lentamente, sfiorando con le dita della destra la parete. Infine toccò una barra rotonda di metallo. Si fermò e tastò l’asta di ferro finché, sollevandosi in punta di piedi, toccò una maniglia sporgente di ferro grezzo. Con tutte le sue forze, la tirò dall’alto in basso.
Ci furono un cigolio spaventoso e un tonfo. Piovvero scintille azzurre. Gli echi si spensero in lontananza, stridenti, in fondo al corridoio dietro di lei. Arha tese le mani e sentì, a una spanna dal suo volto, la superficie corrosa di una porta di ferro.
Fece un lungo respiro.
Ritornò lentamente lungo la galleria, nella cripta, e tenendo sulla destra la parete risalì fino alla botola che portava nel palazzo del trono. Camminava senza affrettarsi, e in silenzio, sebbene il silenzio non fosse più necessario. Aveva catturato il ladro. La porta che lui aveva varcato era l’unica via per entrare e uscire nel labirinto, e si poteva aprire soltanto dall’esterno.
Adesso lui era laggiù, nella tenebra sotterranea, e non ne sarebbe uscito mai più.
Camminando eretta, a passo lento, Arha passò davanti al trono ed entrò nella lunga navata a colonne. E là, dove da un bacile di bronzo montato su un alto tripode traboccava il rosso bagliore delle braci, si voltò e si avvicinò ai sette gradini che portavano al trono. S’inginocchiò sul gradino più basso e piegò la fronte sulla pietra fredda e polverosa, costellata dalle ossa dei topi lasciate cadere dai gufi cacciatori.
— Perdonatemi, perché ho visto infranta la vostra tenebra — disse, senza pronunciare quelle parole a voce alta. — Perdonatemi perché ho visto violate le vostre tombe. Sarete vendicati. Oh, miei Padroni, la morte lo consegnerà a voi, e non rinascerà mai!
Eppure, mentre pregava, vedeva con l’occhio della mente il tremulo splendore della grotta illuminata, la vita nel luogo della morte; e invece del terrore per il sacrilegio e del furore contro il ladro, provava soltanto stupore per quella stranezza.
— Cosa devo dire a Kossil? — si chiese, mentre usciva nelle raffiche del vento invernale e si stringeva nel mantello. — Nulla. Non ancora. Io sono la padrona del labirinto. Non riguarda il re-dio. Lo dirò a Kossil dopo che il ladro sarà morto, forse. Come devo ucciderlo? Dovrei chiamare Kossil perché lo guardi morire. A lei la morte piace. Ma cosa stava cercando, quell’uomo? Dev’essere pazzo. Come ha potuto entrare? Soltanto io e Kossil abbiamo le chiavi della porta nelle rocce rosse e della botola. Dev’essere entrato dalla porta nelle rocce rosse. Solo un incantatore potrebbe aprirla. Un incantatore…
Si fermò, nonostante il vento che minacciava di travolgerla.
— È un incantatore, un mago delle Terre Interne, alla ricerca dell’amuleto di Erreth-Akbe.
E tutto questo aveva un fascino così oltraggioso che lei si sentì riscaldare perfino in quel vento gelido, e rise forte. Tutt’intorno, il Luogo e il deserto che lo circondava erano neri e silenti; il vento gemeva; non c’erano luci, laggiù nella Casa Grande. La neve fine e invisibile volava nel vento.
— Se ha aperto la porta delle rocce rosse con la magia, può aprirne altre. Può fuggire.
Il pensiero l’agghiacciò per un momento, ma non la convinse. I Senza Nome l’avevano lasciato entrare. Perché no? Lui non poteva fare del male. Che male fa un ladro se non può lasciare la scena del furto? Doveva disporre di sortilegi e di poteri maligni, senza dubbio molto forti, se si era spinto così lontano; ma non sarebbe andato oltre. Nessun sortilegio gettato da un mortale poteva essere più potente della volontà dei Senza Nome, delle presenze nelle tombe, dei re del trono vuoto.
Per rassicurarsi, Arha si affrettò a raggiungere la Casa Piccola. Manan dormiva sotto il portico, avvolto nel mantello e nella logora coperta di pelliccia che era il suo letto invernale. Lei entrò senza far rumore per non destarlo, e senza accendere la lampada. Aprì una stanzetta chiusa a chiave, un ripostiglio in fondo al corridoio. Fece schizzare una scintilla con la pietra focaia, per il tempo necessario per trovare un certo punto nel pavimento; s’inginocchiò e sollevò una piastrella, forzandola. Le sue dita incontrarono un pezzo di stoffa sudicia e pesante, poco più ampio di una spanna. Lo scostò, adagio. E si ritrasse con un sussulto, perché un raggio di luce salì dal basso e le investì il volto.