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E adesso si chiese: perché l’uomo non avrebbe dovuto compiere quella spedizione per lei? Poteva guardare quanto voleva i tesori delle tombe. Tanto, non gli sarebbero serviti a niente. E lei avrebbe potuto beffarlo, e dirgli di mangiare l’oro e di bere i diamanti.

Con la fretta nervosa e febbrile che da tre giorni si era impadronita di lei, corse al tempio degli dèi gemelli, aprì la piccola cripta del tesoro, e scoprì lo spioncino accuratamente celato nel pavimento.

Là sotto c’era la Camera Dipinta, ma era immersa nell’oscurità. La via che l’uomo doveva percorrere nel labirinto era molto più lunga, forse di parecchie miglia; e lei l’aveva dimenticato. E senza dubbio, era indebolito e non camminava svelto. Forse avrebbe scordato le sue istruzioni e avrebbe sbagliato a svoltare. Pochissime persone riuscivano a ricordare le istruzioni dopo averle udite una sola volta, come ci riusciva lei. Forse non aveva neppure compreso la lingua che lei parlava. Se era così, allora vagasse pure fino a quando fosse crollato a morire nel buio, lo sciocco, lo straniero, il miscredente. E che il suo spettro gemesse per le strade di pietra delle Tombe di Atuan, fino a quando la tenebra avrebbe divorato anche quello…

La mattina seguente, molto presto, dopo una notte di scarso sonno e di sogni maligni, Arha ritornò allo spioncino nel piccolo tempio. Guardò, e non vide nulla: tenebra. Calò una candela accesa in una piccola lanterna di stagno appesa a una catena. L’uomo era lì, nella Camera Dipinta. Oltre il lume della candela, lei ne vide le gambe e una mano inerte. Parlò nello spioncino, che era grande quanto una piastrella del pavimento: — Mago!

Nessun movimento. Era morto? Era tutta lì, dunque, la sua forza? Arha fece una smorfia; il cuore le batté più forte. — Mago! — gridò, e la sua voce risuonò nella cavità della camera sottostante. L’uomo si mosse, e lentamente si sollevò a sedere, e si guardò intorno frastornato. Dopo un poco alzò la testa, sbattendo le palpebre nel vedere la minuscola lanterna che dondolava dal soffitto. La sua faccia era uno spettacolo terribile, gonfia e scura come un volto di mummia.

Tese la mano verso il bastone che giaceva sul pavimento accanto a lui, ma sul legno non fiorì la luce. Non gli restava più nessun potere.

—  Mago, vuoi vedere il tesoro delle Tombe di Atuan?

Lui guardava, stancamente, socchiudendo le palpebre nella luce della lanterna: non poteva scorgere altro. Dopo un po’, con una smorfia che forse era cominciata come sorriso, annuì, una volta sola.

—  Esci da questa stanza e va’ a sinistra. Prendi il primo corridoio a sinistra… — Arha elencò la lunga serie di istruzioni, senza pause, e alla fine aggiunse: — Là troverai il tesoro che sei venuto a cercare. E forse troverai l’acqua. Quale preferiresti, ora?

L’uomo si alzò in piedi, appoggiandosi al bastone. Guardando in alto con occhi che non potevano vederla si sforzò di dire qualcosa, ma non c’era voce nella sua gola arida. Scrollò leggermente le spalle e lasciò la Camera Dipinta.

Lei non gli avrebbe dato l’acqua. E l’uomo, del resto, non avrebbe mai trovato la strada della stanza del tesoro. Le istruzioni erano troppo lunghe perché potesse ricordarle tutte; e c’era l’Abisso, se mai fosse giunto tanto lontano. Adesso era al buio. Avrebbe perso la strada, e avrebbe finito col cadere e morire chissà dove, nelle gallerie strette e aride. E Manan l’avrebbe trovato e l’avrebbe trascinato fuori. E quella sarebbe stata la fine. Arha strinse con le dita l’orlo dello spioncino e si dondolò avanti e indietro, avanti e indietro, mordendosi le labbra come per reggere una sofferenza insopportabile. Non gli avrebbe dato l’acqua. Non gli avrebbe dato l’acqua. Gli avrebbe dato la morte, la morte, la morte, la morte, la morte.

In quell’ora grigia della sua esistenza, Kossil venne da lei, entrando a passo pesante nella stanza del tesoro, voluminosa nelle nere vesti invernali.

—  Non è ancora morto?

Arha alzò la testa. Non c’erano lacrime nei suoi occhi, nulla da nascondere.

—  Credo — disse, alzandosi e spolverandosi le gonne. — La luce si è spenta.

—  Potrebbe essere un trucco. I senz’anima sono molto astuti.

—  Attenderò un giorno per esserne certa.

—  Sì, o due giorni. Poi Duby potrà scendere e portarlo fuori. È più forte del vecchio Manan.

—  Tuttavia Manan è al servizio dei Senza Nome, e Duby no. Ci sono luoghi, nel labirinto, in cui Duby non deve andare: e il ladro è in uno di questi.

—  Allora è già profanato…

—  Verrà purificato dalla sua morte — disse Arha. Capiva, dall’espressione di Kossil, che il suo volto doveva apparire strano. — Questo è il mio dominio, sacerdotessa. Devo prendermene cura come mi comandano i miei Padroni. Non ho bisogno di lezioni sulla morte.

La faccia di Kossil parve ritrarsi nel cappuccio nero, come la testa di una tartaruga del deserto entro il guscio, lenta e acida e fredda. — Sta bene, padrona.

Si separarono davanti all’altare degli dèi gemelli. Arha, senza fretta, si recò alla Casa Piccola, e chiamò Manan perché l’accompagnasse. Da quando aveva parlato con Kossil, sapeva cosa doveva fare.

Insieme a Manan salì la collina, entrò nel palazzo e scese nella cripta. Tirando contemporaneamente la lunga maniglia, aprirono la porta di ferro del labirinto. Poi accesero le lanterne ed entrarono. Arha si avviò per prima verso la Camera Dipinta, e da là si avviò verso il Grande Tesoro.

Il ladro non era arrivato molto lontano. Arha e Manan non avevano percorso più di cinquecento passi nel tortuoso corridoio quando lo trovarono, accasciato nello stretto andito come un mucchio di stracci. Aveva lasciato cadere il bastone, prima di crollare: giaceva piuttosto lontano da lui. Aveva la bocca sanguinante, gli occhi semichiusi.

—  È vivo — disse Manan inginocchiandosi e tenendo la grossa mano giallastra sulla scura gola, per sentirne le pulsazioni. — Devo strangolarlo, padrona?

—  No, lo voglio vivo. Raccoglilo e seguimi.

—  Vivo? — chiese Manan, inquieto. — Perché, padroncina?

—  Per farne uno schiavo delle tombe! Taci e fa’ come ti dico.

Con aria più malinconica che mai, Manan si caricò faticosamente sulle spalle il giovane, come un sacco, e seguì barcollando Arha. Non poteva andare molto lontano, con un simile peso. Si fermarono una decina di volte, lungo il percorso di ritorno, perché Manan potesse riprendere fiato. A ogni sosta, il corridoio era sempre lo stesso: le pietre giallo-grigiastre commesse strettamente che salivano a formare una volta, l’irregolare pavimento di roccia, l’aria morta; e Manan gemeva e ansimava, lo sconosciuto giaceva immobile, le due lanterne brillavano fioche in una cupola di luce che si restringeva nell’oscurità lungo il corridoio, in entrambe le direzioni. A ogni sosta, dalla borraccia che aveva portato, Arha versava un po’ d’acqua nell’arida bocca dell’uomo: un poco alla volta, perché la vita, ritornando, non lo uccidesse.

—  Alla Camera delle Catene? — chiese Manan quando giunsero nel passaggio che conduceva alla porta di ferro; e a quelle parole, per la prima volta Arha si chiese dove avrebbe dovuto portare il prigioniero. Non lo sapeva.

—  No, là no — disse, nauseata dal ricordo del fumo e del fetore e delle facce irsute, mute e cieche. E Kossil poteva andare nella Camera delle Catene. — Deve… deve restare nel labirinto, in modo che non possa recuperare la sua magia. Dove può esserci una camera che…