— Che cos’è? — chiese lei. — Quella cicatrice.
Il giovane non rispose subito.
— Un drago? — chiese Arha, cercando di darsi un tono ironico. Non era forse venuta lì per beffarsi della propria vittima, per tormentarla e ridere della sua impotenza?
— No, non un drago.
— Dunque, almeno non sei un signore dei draghi.
— No — replicò lui, con una certa riluttanza. — Io sono un signore dei draghi. Ma le cicatrici sono antecedenti. Ti ho detto che ho incontrato le Potenze Tenebrose in altri luoghi della terra. Quello che porto sul volto è il marchio di uno della stirpe dei Senza Nome. Ma non è più senza nome, perché alla fine ho scoperto il suo.
— Cosa vuoi dire? Che nome?
— Questo non posso dirtelo — rispose lui, e sorrise, sebbene la sua espressione fosse grave.
— È un’assurdità, una sciocchezza, un sacrilegio. Loro sono i Senza Nome! Tu non sai ciò che dici…
— Lo so meglio di te, sacerdotessa — ribatté il giovane, con voce più profonda. — Guarda ancora! — Girò la testa, perché lei vedesse i quattro terribili segni che gli sfregiavano la guancia.
— Non ti credo — disse Arha, con voce tremante.
— Sacerdotessa — fece lui, gentilmente, — tu non sei molto vecchia: non puoi essere da molto tempo al servizio dei Tenebrosi.
— E invece sì. Da moltissimo tempo! Io sono la Prima Sacerdotessa, la Rinata. Ho servito i miei padroni per mille e mille anni, prima d’ora. Sono la loro ancella, e la loro voce e le loro mani. E sono anche la loro vendetta contro quelli che profanano le tombe e vedono ciò che non devono vedere! Smetti di mentire e di vantarti: non capisci che se dico una sola parola, il mio guardiano verrà qui e ti spiccherà la testa dalle spalle? Oppure, se me ne vado e chiudo questa porta, nessuno verrà mai, e tu morirai qui nell’oscurità, e Coloro che io servo divoreranno la tua carne e la tua anima e lasceranno le tue ossa qui nella polvere.
In silenzio, l’uomo annuì.
Arha balbettò e non trovò null’altro da dire: uscì in fretta dalla stanza e sbarrò rumorosamente la porta. Lui doveva credere che non sarebbe più tornata! Doveva sudare, lì nell’oscurità, e imprecare e rabbrividire e cercare di operare i suoi immondi e inutili sortilegi!
Ma con l’occhio della mente lo vide sdraiarsi per dormire, come l’aveva visto fare accanto alla porta di ferro, sereno come un agnello in un prato soleggiato.
Sputò contro la porta chiusa, tracciò il segno per scongiurare la profanazione, e tornò quasi di corsa verso la cripta.
Quando ne costeggiò la parete, dirigendosi alla botola del palazzo, le sue dita sfiorarono le delicate linee e venature della roccia, simili a trina cristallizzata. L’invase il desiderio di accendere la lanterna, di vedere ancora una volta, solo per un momento, la pietra scolpita dal tempo, l’incantevole scintillio delle pareti. Chiuse strettamente le palpebre e si affrettò a procedere.
IL GRANDE TESORO
I riti e i doveri della giornata non le erano mai sembrati tanto numerosi e lunghi e meschini. Le bambine con la faccetta pallida e i modi furtivi, le novizie irrequiete, le sacerdotesse dal volto austero e sereno ma dall’esistenza che era un groviglio segreto di gelosie e di infelicità e di piccole ambizioni e di passioni sprecate… tutte quelle donne, tra le quali era sempre vissuta, e che formavano per lei tutto il mondo umano, adesso le apparivano patetiche e noiose.
Ma lei, che serviva un grande potere, lei, la sacerdotessa della tetra Notte, era immune da quelle meschinità. Non doveva curarsi della logorante mediocrità della vita comune, dei giorni in cui l’unica gioia era di ottenere sul piatto di lenticchie una cucchiaiata di grasso d’agnello in più della vicina… Lei era completamente libera dai giorni. Sottoterra, non c’erano giorni. C’era sempre e soltanto la notte.
E in quella notte interminabile, il prigioniero: l’uomo bruno, praticante di arti tenebrose, incatenato col ferro e imprigionato nella pietra, che attendeva che lei andasse o non andasse, per portargli acqua e pane e vita, oppure un coltello e un bacile da macellaio e morte, a seconda del capriccio.
Lei non aveva parlato a nessuno di quell’uomo, eccetto a Kossil, e Kossil non l’aveva detto a nessun altro. Lui era ormai da tre notti e tre giorni nella Camera Dipinta, e Kossil non aveva ancora chiesto nulla ad Arha. Forse pensava che fosse morto, e che Arha avesse ordinato a Manan di portare il cadavere nella Camera delle Ossa. Kossil non era il tipo che prendesse qualcosa per scontato; ma Arha si diceva che il suo silenzio non era strano. Kossil voleva tenere tutto segreto, e odiava essere costretta a fare domande. E inoltre lei le aveva detto di non immischiarsi negli affari suoi. Kossil ubbidiva, semplicemente.
Tuttavia, se l’uomo lo si doveva ritenere morto, Arha non poteva chiedere cibo per lui. Quindi, oltre a rubare mele e cipolle secche nelle cantine della Casa Grande, rinunciava a mangiare. Si faceva portare i pasti del mattino e della sera alla Casa Piccola, sostenendo che voleva consumarli da sola, e ogni notte portava i viveri alla Camera Dipinta del labirinto: tutto tranne le zuppe. Era abituata a digiunare anche per quattro giorni di seguito, e non le costava sacrificio. L’uomo nel labirinto divorava quelle magre porzioni di pane e formaggio e fagioli, come un rospo divora una mosca: tac!, sparito. Era chiaro che avrebbe mangiato cinque o sei volte di più; ma la ringraziava sobriamente, come se lui fosse l’ospite e lei la padrona di casa, a una mensa come quelle di cui Arha aveva sentito parlare, le mense del palazzo del re-dio, apparecchiate con carni arrosto e pani imburrati e vini in coppe di cristallo. Era molto strano, quell’uomo.
— Come sono le Terre Interne?
Arha aveva portato uno sgabelletto pieghevole d’avorio, per non restare in piedi mentre l’interrogava; e non voleva sedersi sul pavimento, allo stesso livello.
— Ecco, ci sono molte isole. Quattro volte quaranta, dicono, solo nell’arcipelago, e poi ci sono i mari; nessuno ha mai navigato tutti i mari né contato tutte le terre. E ognuna è diversa dalle altre. Ma la più bella, forse, è Havnor, la grande terra al centro del mondo. Nel cuore di Havnor c’è una vasta baia piena di navi, dove sorge la città di Havnor. Le torri sono di marmo bianco. La casa di ogni principe e di ogni mercante ha una torre, e perciò s’innalzano una sopra l’altra. I tetti degli edifici sono di tegole rosse, e tutti i ponti sui canali sono coperti di mosaico, rosso e azzurro e verde. E le bandiere dei principi sono di tutti i colori, e garriscono sulle bianche torri. Sulla torre più alta sta, come un pinnacolo, la spada di Erreth-Akbe, protesa verso il cielo. Quando il sole si leva su Havnor, lampeggia per prima cosa su quella spada e la fa rifulgere; e quando tramonta, la spada rimane ancora indorata nella sera, per lunghi istanti.
— Chi era Erreth-Akbe? — chiese Arha, subdolamente.
L’uomo alzò lo sguardo verso di lei. Non disse nulla, ma sorrise appena. Poi, come soprappensiero, disse: — È vero, qui dovete sapere ben poco di lui. Solo che venne nelle terre di Kargad, forse. E di questo, quanto ne sai?
— So che perse il suo bastone da incantatore e il suo amuleto e il suo potere… come te — rispose lei. — Sfuggì al sommo sacerdote e riparò in occidente, e i draghi lo uccisero. Ma se fosse venuto qui, nelle tombe, non ci sarebbe stato bisogno dell’intervento dei draghi.
— È abbastanza vero — disse l’uomo.
Arha non voleva più parlare di Erreth-Akbe, perché intuiva il pericolo di quell’argomento. — Era un signore dei draghi, dicono. E anche tu dici di esserlo. Spiegami cos’è un signore dei draghi.