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Il tono di Arha era sempre sarcastico, le risposte del prigioniero sempre dirette e semplici, come se accettasse in buona fede quelle domande.

—  Uno con il quale i draghi parlano — disse, — è un signore dei draghi, o almeno questo è il nucleo della questione. Non significa la capacità di dominare i draghi, come crede molta gente. I draghi non hanno padroni. Con un drago, il problema è sempre lo stesso: ti parlerà o ti divorerà? Se puoi essere certo che farà la prima cosa e non la seconda, allora sei un signore dei draghi.

—  I draghi sanno parlare?

—  Certamente! Nella Lingua Antica, la lingua che noi uomini impariamo con tanta fatica e usiamo tanto malamente, per i nostri incantesimi di magia e di formazione. Nessuno conosce tutta quella lingua… neppure la decima parte. Non c’è il tempo per impararla. Ma i draghi vivono mille anni… Vale la pena di parlare con loro, come puoi immaginare.

—  Ci sono draghi, qui in Atuan?

—  Non ce ne sono più da molti secoli, credo, e neppure a Karego-At. Ma nella vostra isola più settentrionale, Hur-at-Hur, dicono che tra le montagne esistano ancora grossi draghi. Nelle Terre Interne stanno tutti all’estremo ovest, nel remoto stretto occidentale, su isole dove non vivono gli uomini e dove pochi uomini giungono. Se hanno fame, compiono scorrerie nelle terre a oriente; ma questo avviene di rado. Io ho visto l’isola dove vanno a danzare, tutti insieme. Volano a spirali con le loro ali immense, avanti e indietro, sempre più in alto, sopra il mare occidentale, come una tempesta di foglie gialle in autunno. — Gli occhi dell’uomo, colmi di quella visione, guardavano oltre i neri affreschi alle pareti, oltre le pareti e la terra e la tenebra, e vedevano il mare aperto, intatto nel tramonto, e i draghi aurei nell’aureo vento.

—  Tu menti — disse rabbiosamente la ragazza. — Tu stai inventando tutto.

Lui la guardò, sbalordito. — Perché dovrei mentire, Arha?

—  Per farmi sentire sciocca, e stupida, e per spaventarmi. Per apparire sapiente e coraggioso e potente, un signore dei draghi e tutto il resto. Tu hai visto la danza dei draghi, e le torri di Havnor, e sai tutto di tutto. E io non so nulla e non sono stata in nessun posto. Ma tu conosci solo le menzogne! Non sei altro che un ladro prigioniero, e non hai anima, e non lascerai mai più questo luogo. Non ha importanza se esistono oceani e draghi e torri bianche e tutto il resto, perché non li rivedrai mai più, e non rivedrai mai più la luce del sole. Tutto ciò che io conosco è la tenebra, la notte sotterranea. Ed è la sola cosa che esista. È la sola cosa che si può conoscere, alla fine. Il silenzio, e la tenebra. Tu sai tutto, mago. Ma io so una cosa soltanto… l’unica cosa vera!

L’uomo chinò la testa. Le lunghe mani, brune con riflessi di rame, erano immobili sulle ginocchia. Arha vide le quattro cicatrici sulla guancia. Si era spinto nella tenebra più lontano di lei: conosceva la morte meglio di lei, perfino la morte… Si sentì pervadere da uno slancio di odio che per un istante la soffocò. Perché se ne stava lì così indifeso eppure così forte? Perché lei non riusciva a sconfiggerlo?

—  È per questo che ti lascio vivere — disse all’improvviso, senza riflettere. — Voglio che tu mi mostri i trucchi degli incantatori. Finché avrai qualche arte da mostrarmi, rimarrai vivo. Se non ne conosci, se sono soltanto inganni e menzogne, ti finirò. Hai compreso?

—  Sì.

—  Benissimo. Continua.

L’uomo nascose la testa fra le mani per qualche attimo, e cambiò posizione. La cintura di ferro gli impediva di trovare una posizione comoda, a meno che si stendesse.

Infine rialzò la faccia e parlò, in tono molto serio. — Ascolta, Arha. Io sono un mago: quello che voi chiamate incantatore. Possiedo certe arti e certi poteri. Questo è vero. È anche vero che qui, nel luogo delle Antiche Potenze, la mia forza è scarsa e le mie arti non mi soccorrono. Potrei operarti illusioni e mostrarti prodigi di ogni genere. Ma è la parte meno importante della magia. Sapevo operare illusioni già quand’ero bambino: posso farlo perfino qui. Ma se tu vi crederai, ti spaventeranno; e forse vorrai uccidermi, se la paura susciterà in te la collera. E se non vi crederai, le vedrai soltanto quali menzogne e inganni, come tu dici; e perciò perderei ugualmente la vita. E il mio scopo, il mio desiderio, in questo momento, è di rimanere vivo.

A queste parole Arha rise, e poi disse: — Oh, resterai vivo per un po’, non capisci? Sei stupido! Avanti, mostrami queste illusioni. So che sono false, e non ne avrò paura. Anzi, non mi spaventerei neppure se fossero reali. Ma procedi. La tua preziosa pelle è salva, almeno per questa notte.

Allora l’uomo rise, come aveva fatto lei un momento prima. Si gettavano avanti e indietro la sua vita, come una palla, giocando.

—  Cosa vuoi che ti mostri?

—  Cosa puoi mostrarmi?

—  Qualunque cosa.

—  Continui a vantarti!

—  No — disse lui, evidentemente punto sul vivo. — Non mi vanto. O almeno, non ne ho l’intenzione.

—  Mostrami qualcosa che secondo te vale la pena di vedere. Qualunque cosa!

Il giovane chinò la testa e si guardò le mani per qualche istante. Non accadde nulla. La candela di sego nella lanterna dava una luce fioca e costante. I neri affreschi alle pareti, le figure alate ma non in volo con gli occhi dipinti di rosso cupo e di bianco, giganteggiavano sopra di lui e sopra di lei. Non si udiva neppure un suono. Arha sospirò, delusa e irritata. Lui era debole: parlava di cose grandi ma non faceva nulla. Non era altro che un abile bugiardo, e neppure un ladro abile. — Bene — disse lei, alla fine, e si raccolse le gonne per alzarsi. La lana frusciò stranamente, quando lei si mosse. Allora abbassò lo sguardo e scattò, sbalordita.

La pesante veste nera che portava da anni era sparita: il suo abito era di seta turchese, lucente e tenero come il cielo serotino. Si allargava a campana dai fianchi, e tutta la gonna era ricamata di sottili fili d’argento e di perle scaramazze e di minuscole briciole di cristallo, e scintillava dolcemente, come la pioggia d’aprile.

Arha guardò il mago, ammutolita.

—  Ti piace?

—  Dove…

—  È simile all’abito che ho visto addosso a una principessa, una volta, alla festa del Ritorno del sole, nella nuova reggia di Havnor — disse il giovane, guardandolo soddisfatto. — Tu mi hai detto di mostrarti qualcosa che valesse la pena di vedere. Io ti mostro te stessa.

—  Fallo… fallo sparire.

—  Tu mi hai dato il tuo mantello — replicò lui, in tono di rimprovero. — E io non posso darti nulla? Bene, non preoccuparti. È soltanto un’illusione. Guarda.

Non alzò un dito, parve; e certamente non pronunciò una parola; ma l’azzurro splendore della seta svanì, e Arha era avvolta di nuovo nella severità della veste nera.

Rimase immota, a lungo.

—  Come posso sapere — chiese infine, — se tu sei davvero ciò che sembri?

—  Non puoi saperlo — rispose il giovane. — Io non so cosa ti sembro.

Arha rifletté di nuovo. — Potresti indurmi a vederti come… — S’interruppe perché lui aveva alzato la mano indicando in alto, con un brevissimo abbozzo di gesto. Pensò che stesse lanciando un incantesimo e si affrettò a ritirarsi verso la porta: ma seguendo quel gesto, i suoi occhi incontrarono lassù, nel soffitto ad arco, il minuscolo quadrato che era lo spioncino della stanza del tesoro, nel tempio degli dèi gemelli.

Non irradiava luce, dallo spioncino; lei non poteva vedere nulla, lassù, non udiva nessuno. Ma l’uomo aveva indicato quel punto, e adesso la fissava con aria interrogativa.

Rimasero assolutamente immobili per lunghi istanti.

—  La tua magia è solo una follia, buona per gli occhi dei bambini — disse Arha, pronunciando distintamente le parole. — Trucchi e menzogne. Ho visto abbastanza. Verrai dato in pasto ai Senza Nome. Io non tornerò mai più.