Prese la lanterna e uscì, e chiuse rumorosamente, con forza, i catenacci di ferro. Poi si fermò davanti alla porta, sconcertata. Cosa doveva fare?
Cos’aveva visto e udito, Kossil? Cosa stavano dicendo, loro due? Non riusciva a ricordare. Sembrava che non dicesse mai al prigioniero ciò che voleva dirgli. Lui la confondeva sempre parlando di draghi e di torri e dei nomi dei Senza Nome, e dicendo che voleva rimanere vivo e che le era grato per il dono del mantello. Non diceva mai ciò che doveva dire. E lei non aveva mai chiesto nulla del talismano, che adesso portava ancora, nascosto sotto la veste.
Tanto meglio, poiché Kossil stava ascoltando.
Ebbene, non aveva importanza: che male poteva fare, Kossil? E mentre si rivolgeva quella domanda, Arha conosceva già la risposta. Non c’è nulla di più facile che uccidere un falco ingabbiato. L’uomo era indifeso, incatenato nella gabbia di pietra. La sacerdotessa del re-dio poteva mandare Duby, il suo servitore, a strangolarlo, quella notte stessa; oppure, se lei e Duby non conoscevano abbastanza il labirinto per arrivare fin lì, era sufficiente che soffiasse una polvere velenosa nella Camera Dipinta, attraverso lo spioncino. Possedeva cassette e fiale di sostanze malefiche: alcune per avvelenare il cibo o l’acqua, altre che drogavano l’aria e uccidevano se si respirava quell’aria troppo a lungo. E l’indomani mattina lo si sarebbe trovato morto, e tutto sarebbe finito. Non ci sarebbe più stata una luce, sotto le tombe.
Arha si affrettò a percorrere gli stretti corridoi di pietra, verso la porta della cripta, dove Manan l’attendeva, acquattato pazientemente nell’oscurità come un vecchio rospo. Le sue visite al prigioniero lo rendevano inquieto. Lei non gli permetteva di accompagnarla fin là, perciò avevano raggiunto un compromesso. Adesso era lieta che Manan fosse lì, a portata di mano. Di lui, almeno, poteva fidarsi.
— Manan, ascolta. Devi andare nella Camera Dipinta, immediatamente. Di’ all’uomo che vieni a prenderlo per seppellirlo vivo sotto le tombe. — Gli occhietti di Manan s’illuminarono. — Dillo con voce chiara e forte. Apri la catena e conducilo… — Arha s’interruppe, perché non aveva ancora deciso quale poteva essere il nascondiglio migliore.
— Nella cripta — suggerì premuroso Manan.
— No, sciocco. Ti ho detto di dirlo, non di farlo. Aspetta… Quale posto poteva essere al sicuro da Kossil e dalle sue spie?
Solo i luoghi sotterranei più profondi, più sacri e celati del dominio dei Senza Nome, dove lei non osava addentrarsi. Eppure, Kossil non avrebbe forse osato qualunque cosa? Aveva paura dei luoghi tenebrosi, ma era capace di dominare il terrore per realizzare i suoi fini. Era impossibile sapere fino a che punto avesse appreso la planimetria del labirinto, da Thar, o dall’Arha della precedente incarnazione, o addirittura da esplorazioni segrete, compiute nel passato. Arha sospettava che sapesse più di quanto fingeva di sapere. Ma c’era una via che sicuramente non poteva conoscere: il segreto più gelosamente custodito.
— Devi portare l’uomo dove ti condurrò, e dovrai farlo al buio. Poi, quando ti ricondurrò qui, scaverai una fossa nella cripta e preparerai una bara: la deporrai vuota nella fossa e la coprirai di terra, in modo che, se qualcuno la cerca possa trovarla. Una tomba profonda. Capisci?
— No — disse Manan, austero e turbato. — Piccola, questo trucco non è saggio. Non va bene. Non dovrebbe esserci un uomo, qui! Verrà una punizione…
— Un vecchio sciocco finirà con la lingua mozza, sì! Tu osi insegnarmi che cosa è saggio e che cosa non lo è? Io eseguo gli ordini delle Potenze delle Tenebre. Seguimi!
— Scusami, padroncina, scusami…
Ritornarono nella Camera Dipinta. Arha attese nella galleria, mentre Manan entrava e staccava la catena dalla parete. Udì la voce profonda chiedere: — Dove andiamo, Manan? — E la roca voce di contralto rispose, cupamente: — Verrai sepolto vivo, così ha detto la mia padrona. Sotto le Pietre Tombali. Alzati! — Udì la pesante catena schioccare come una frusta.
Il prigioniero uscì, con le braccia legate dalla cintura di cuoio di Manan. L’eunuco lo seguiva, tenendolo come un cane a guinzaglio corto, ma il collare era intorno alla sua vita e il guinzaglio era di ferro. L’uomo voltò gli occhi verso di lei, ma Arha spense la candela e senza dire una parola si avviò nell’oscurità. Subito prese il passo lento ma sicuro che teneva solitamente quando non usava la lampada nel labirinto, sfiorando con la punta delle dita l’una e l’altra parete. Manan e il prigioniero la seguivano, molto più impacciati a causa del guinzaglio, e strascicavano i piedi e incespicavano. Ma dovevano procedere al buio, perché Arha non voleva che nessuno dei due imparasse la strada.
Una svolta a sinistra dalla Camera Dipinta, poi superare due aperture; arrivare fino alle Quattro Vie e oltrepassare l’apertura sulla destra; poi un lungo percorso curvilineo e una scala da scendere, lunga, sdrucciolevole, con i gradini troppo stretti per piedi umani. Arha non si era mai spinta oltre quella scala.
L’aria era più malsana, lì: immobile, e con un odore acuto. Le istruzioni erano chiare nella sua mente, e perfino il tono della voce di Thar che gliele insegnava. Giù per i gradini (il prigioniero incespicò nella tenebra, e lei l’udì ansimare quando Manan lo tenne in piedi con un poderoso strattone alla catena), e ai piedi della scala svoltare subito a sinistra. Poi continuare sulla sinistra per tre aperture, e poi prendere la prima a destra e tenersi sulla destra. Le gallerie curvavano e svoltavano: nessuna procedeva diritta. «Poi devi girare intorno all’Abisso — disse la voce di Thar, nell’oscurità della sua mente. — E la via è molto stretta.»
Arha rallentò il passo, si chinò, tastò il pavimento con la mano. Il corridoio, adesso, proseguiva diritto per un lungo tratto, dando una falsa sicurezza. All’improvviso la sua mano brancolante, che non aveva mai smesso di toccare la roccia, non sentì nulla. C’era l’orlo della pietra: e oltre quell’orlo, il vuoto. Sulla destra, la parete del corridoio scendeva a perpendicolo nell’abisso. Sulla sinistra c’era un cornicione, non più largo di una spanna.
— C’è un abisso. Voltatevi verso la parete a sinistra, e camminate di sbieco. Fate scivolare i piedi. Tieni stretta la catena, Manan… Siete sul cornicione? Diventa più stretto. Non appoggiate il peso sui talloni. Ecco, ho superato l’abisso. Tendimi la mano. Ecco…
Il corridoio procedeva in brevi zigzag, con molte aperture laterali. Da alcune, mentre le superavano, il suono dei passi echeggiava stranamente, cavernosamente; e, cosa ancora più strana, si sentiva una corrente d’aria lievissima, un’aspirazione. Quei corridoi dovevano terminare in abissi, come quello che avevano superato. Forse, sotto quella parete bassa del labirinto, c’era una cavità, una grotta così immensa che al confronto la cripta sarebbe apparsa ben poca cosa, un enorme e nero e vuoto sotterraneo.
Ma sopra quell’abisso, dove procedevano per i bui passaggi, i corridoi si restringevano lentamente e diventavano più bassi finché Arha fu costretta a fermarsi. Quella strada non avrebbe mai avuto fine?
La fine venne all’improvviso: una porta chiusa. Mentre avanzava china, un po’ più svelta del solito, Arha vi urtò con la testa e le mani. Cercò a tentoni il buco della serratura, poi la piccola chiave infilata nell’anello che portava alla cintura, la chiave d’argento con l’asta a forma di drago: entrò, e girò. Arha aprì la porta del Grande Tesoro delle Tombe di Atuan. L’aria — secca, acre, stantia — uscì con un sospiro dall’oscurità.
— Manan, qui non puoi entrare. Attendi fuori dalla porta.
— Lui sì e io no?
— Se entri in questa stanza, non ne uscirai. È la legge che vale per tutti, eccettuata me. Nessun essere mortale, tranne me, ha mai lasciato vivo questa camera. Vuoi entrare?
— Attenderò fuori — disse la voce malinconica, nella tenebra. — Padrona, padrona, non chiudere la porta!
Quell’angoscia la snervò tanto che lasciò la porta socchiusa. In verità quel luogo la riempiva di un cupo spavento, e diffidava del prigioniero sebbene fosse legato. Appena entrata, accese la lampada. Le tremavano le mani. La candela s’infiammò con riluttanza: l’aria era morta e soffocante. Nel chiarore giallognolo, che sembrava fulgido dopo le lunghe gallerie di tenebre, la camera del tesoro giganteggiava intorno a loro, piena di ombre in movimento. C’erano sei grandi cofani, tutti di pietra, tutti coperti da una fine polvere grigia, come la muffa del pane. Nient’altro. Le pareti erano scabre, la volta bassa. C’era freddo, un freddo profondo e privo d’aria che sembrava arrestare il sangue nel cuore. Non c’erano ragnatele: soltanto polvere. Nulla viveva, lì: neppure gli scarsi ragnetti bianchi del labirinto. La polvere era spessa, molto spessa, e ogni granello poteva essere un giorno trascorso lì, dove non c’erano né il tempo né la luce: giorni, mesi, anni, epoche, tutti divenuti polvere.