— Questo è il luogo che cercavi — disse Arha, e la sua voce era ferma. — È il Grande Tesoro delle Tombe. Ci sei arrivato. Non potrai mai lasciarlo.
L’uomo non disse nulla, e il suo volto era quieto, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che la turbò: una desolazione, lo sguardo di chi si sente tradito.
— Hai detto che volevi rimanere vivo. Questo è l’unico luogo dove puoi restar vivo. Kossil ti ucciderà o mi costringerà a ucciderti, Sparviero. Ma qui non può arrivare.
Lui continuò a tacere.
— Non avresti mai potuto lasciare le tombe in nessun caso, non capisci? Qui non è diverso. E almeno sei giunto alla… alla fine del tuo viaggio. Quello che cercavi è qui.
L’uomo si sedette su uno dei grandi cofani, esausto, e la catena tintinnò con un suono aspro sulla pietra. Girò lo sguardo sulle grige pareti e sulle ombre, e poi su di lei.
Arha distolse gli occhi e li posò sui cofani di pietra. Non aveva nessun desiderio di aprirli. Non le interessavano le meraviglie che imputridivano là dentro.
— Non è necessario che tu porti la catena, qui. — Si avvicinò e aprì la serratura della cintura di ferro, e gli sciolse le braccia dalla cintura di cuoio di Manan. — Dovrò chiudere la porta, ma quando verrò qui mi fiderò di te. Tu sai che non puoi andartene… che non devi tentare. Io sono la loro vendetta, io compio la loro volontà. Ma se io li deludessi… se tu tradissi la mia fiducia… allora si vendicherebbero. Non devi tentare di lasciare questa camera, facendomi del male o ingannandomi quando verrò. Devi credermi.
— Farò come tu dici — mormorò lui, gentilmente.
— Ti porterò cibo e acqua, quando potrò. Non sarà molto. Acqua a sufficienza, ma non molto cibo, per un po’: ho fame, capisci? Ma quanto basta per tenerti in vita. Forse non potrò tornare per un giorno o due, o anche di più. Devo mettere fuori pista Kossil. Ma verrò. Lo prometto. Ecco la borraccia. Bevi con parsimonia: non potrò ritornare tanto presto. Ma tornerò.
L’uomo alzò il volto verso di lei. La sua espressione era strana. — Abbiti cura, Tenar — disse.
NOMI
Arha ricondusse Manan attraverso i tortuosi percorsi, nell’oscurità, e lo lasciò nella tenebra della cripta, a scavare la fossa che doveva comprovare a Kossil l’avvenuta punizione del ladro. Era tardi, e lei andò direttamente nella Casa Piccola, a letto. Nella notte, si svegliò all’improvviso: ricordò di aver lasciato il mantello nella Camera Dipinta. Lui aveva solo la corta mantellina per riscaldarsi in quella cripta umida, né altro letto che la pietra polverosa. Una fredda tomba, una fredda tomba, pensò dolorosamente Arha; ma era troppo stanca per svegliarsi del tutto, e ben presto ripiombò nel sonno. Cominciò a sognare. Sognò le anime dei morti sulle pareti della Camera Dipinta, e le figure simili a grandi uccelli scarruffati, con mani e piedi e volti umani, acquattati nella polvere dei luoghi tenebrosi. Non potevano volare. L’argilla era il loro cibo, e la polvere la loro bevanda. Erano le anime dei non rinati, i popoli antichi e i miscredenti, coloro che i Senza Nome avevano divorato. Stavano acquattati tutti intorno a lei, nelle ombre, e di tanto in tanto emettevano un lieve suono pigolante, o uno scricchiolio. Uno le venne vicinissimo. In un primo istante lei ebbe paura e cercò di ritrarsi, ma non riuscì a muoversi. L’essere aveva una testa di uccello, non un volto umano; ma i suoi capelli erano aurei, e diceva, con voce di donna, «Tenar», dolcemente, affettuosamente, «Tenar».
Si svegliò. L’argilla le ostruiva la bocca. Giaceva in una tomba di pietra, sottoterra. Aveva le braccia e le gambe avviluppate nel sudario, e non poteva muoversi né parlare.
La disperazione divenne così grande che le squarciò il petto e come un uccello di fuoco infranse la pietra ed eruppe nella luce del giorno… la luce del giorno, fievole nella sua stanza priva di finestre.
Veramente sveglia, questa volta, si sollevò a sedere, esausta dai sogni della notte, con la mente obnubilata. Indossò le vesti, e poi andò alla cisterna del cortile recintato della Casa Piccola. Immerse le braccia e il volto, e poi tutta la testa, nell’acqua gelida, finché tutto il corpo sussultò per il freddo, e il sangue riprese a scorrere tumultuoso. Poi, ributtando all’indietro i capelli sgocciolanti, si risollevò, e alzò lo sguardo verso il cielo mattutino.
Non era trascorso molto tempo dal levar del sole, ed era una bella giornata invernale. Il cielo era giallognolo, limpidissimo. Lassù in alto, così alto che rifletteva la luce del sole e ardeva come una pagliuzza d’oro, un uccello stava volando in cerchio, un falco o un’aquila del deserto.
— Io sono Tenar — disse lei, ma non a voce alta; e tremava di freddo e di terrore e di esultanza, là sotto il cielo spalancato, inondato dal sole. — Ho riavuto il mio nome. Io sono Tenar!
La pagliuzza d’oro volteggiò verso occidente, verso le montagne, e scomparve alla sua vista. L’aurora indorava le gronde della Casa Piccola. Le campanelle delle pecore tintinnavano, laggiù negli ovili. Gli odori del fumo di legna e della crema di grano uscivano dai comignoli della cucina e aleggiavano nel vento fresco e puro.
— Ho tanta fame… Lui, come lo sapeva? Come sapeva il mio nome? Oh, devo andare a mangiare, ho tanta fame…
Rialzò il cappuccio, e corse a fare colazione.
Il cibo, dopo tre giorni di semidigiuno, le diede la sensazione di essere solida, come se la zavorrasse; non si sentiva più così stravolta e spensierata e spaventata. Si sentiva perfettamente capace di tener testa a Kossil, dopo colazione.
Si accostò alla figura alta e tozza, mentre uscivano dalla sala da pranzo della Casa Grande, e disse a voce bassa: — Ho liquidato il ladro… Che splendida giornata!
I freddi occhi grigi la guardarono in tralice, sotto il cappuccio nero.
— Mi pareva che la sacerdotessa dovesse astenersi dal cibo per tre giorni, dopo il sacrificio umano.
Era vero. Arha l’aveva dimenticato, e il suo volto mostrava che aveva dimenticato davvero.
— Non è ancora morto — disse infine, cercando di mantenere il tono indifferente che un attimo prima le era venuto così spontaneo. — È sepolto vivo. Sotto le tombe. In una bara. Ci sarà un po’ d’aria: la bara non è sigillata, è di legno. Morirà molto lentamente. Quando saprò che è morto, allora inizierò il digiuno.
— E come lo saprai?
Confusa, Arha esitò di nuovo. — Lo saprò. I… i miei Padroni me lo diranno.
— Capisco. Dov’è la tomba?
— Nella cripta. Ho detto a Manan di scavarla sotto la Pietra Liscia. — Non doveva rispondere con tanta prontezza, in quel tono sciocco e conciliante: doveva conservare la sua dignità, parlando con Kossil.
— Vivo e in una bara di legno. È molto pericoloso, con un incantatore. Padrona, ti sei assicurata che avesse la bocca tappata, in modo da non poter pronunciare sortilegi? Ha le mani legate? Quelli possono intessere incantesimi anche col movimento di un dito, perfino quando hanno la lingua tagliata.
— Non c’è nulla di reale, nella sua magia: sono soltanto trucchi — replicò la ragazza, alzando la voce. — È sepolto, e i miei Padroni stanno attendendo la sua anima. Quanto al resto, non riguarda te!