Questa volta si era spinta troppo oltre. Altri potevano udire: Penthe e un paio di altre ragazze, Duby, e la sacerdotessa Mebbeth, tutti erano a portata di voce. Le ragazze erano tutte orecchi, e Kossil se n’era accorta.
— Tutto ciò che avviene qui mi riguarda, padrona. Tutto ciò che avviene nel suo reame riguarda il re-dio, l’Uomo Immortale di cui io sono l’ancella. Lui cerca e scruta perfino nei luoghi sotterranei e nei cuori degli uomini, e nessuno può impedirglielo!
— Io posso. Nelle tombe non viene nessuno, se i Senza Nome lo proibiscono. Loro esistevano prima del tuo re-dio, e continueranno a esistere dopo di lui. Abbassa la voce quando parli di loro, sacerdotessa. Non attirare su di te la loro vendetta. Verranno nei tuoi sogni, penetreranno nei luoghi oscuri della tua mente, e allora tu perderai la ragione.
Gli occhi delle ragazze brillavano. Il volto di Kossil era celato nelle pieghe del nero cappuccio. Penthe e le altre guardavano, atterrite e affascinate.
— Loro sono vecchi — disse la voce di Kossil, sommessamente, un filo sibilante di suono che usciva dalle profondità del cappuccio. — Loro sono vecchi. Il loro culto è stato dimenticato, a eccezione di quest’unico luogo. Il loro potere è svanito. Sono soltanto ombre. Non hanno più potere. Non cercare di farmi paura, Divorata. Tu sei la Prima Sacerdotessa: questo non significa anche che sei l’ultima? Non puoi ingannarmi. Io leggo nel tuo cuore. La tenebra non mi nasconde nulla. Sta’ in guardia, Arha!
Si girò e si allontanò, con quel suo passo lento e pesante, schiacciando sotto i grossi piedi chiusi nei sandali l’erba stellata di brina, e si avviò verso le candide colonne della casa del re-dio.
La ragazza restò immobile, esile e scura, come se fosse radicata alla terra, nel cortile anteriore della Casa Grande. Nessuno si muoveva, nulla si muoveva, soltanto Kossil, in quell’immenso panorama del cortile e dei templi, delle colline e della pianura desertica e della montagna.
— Che i Tenebrosi divorino la tua anima, Kossil! — gridò Arha, con una voce che era come il grido di un falco; levò il braccio con la mano protesa e irrigidita e scagliò la maledizione contro l’ingombrante schiena della sacerdotessa, mentre metteva il piede sulla gradinata del tempio. Kossil vacillò, ma non si arrestò e non si voltò. Proseguì, e varcò la porta del re-dio.
Arha trascorse tutta la giornata seduta sul gradino più basso del trono vuoto. Non osava entrare nel labirinto, e non voleva andare tra le altre sacerdotesse. Una pesantezza l’opprimeva e la tratteneva lì, un’ora dopo l’altra, nella fredda semioscurità della grande navata; Lei guardava le coppie di grosse colonne pallide che si perdevano nel buio in fondo alla sala, e i raggi di luce che entravano obliqui dagli squarci della volta, e il fumo che saliva in dense volute dal tripode bronzeo presso il trono. Componeva disegni sul gradino di marmo con gli ossicini dei topi, a testa china, e la sua mente era attiva e tuttavia intorpidita. Chi sono?, si chiedeva, e non trovava risposta.
Manan arrivò scalpicciando lungo la navata, tra le doppie file di colonne, quando la luce aveva cessato da tempo di trafiggere la semioscurità e il freddo era divenuto intenso. La sua faccia gonfia e giallognola era molto triste. Si fermò a una certa distanza da lei, tenendo penzolanti le grosse mani; dietro, l’orlo del mantello color ruggine si era staccato e gli ricadeva sui calcagni.
— Padroncina.
— Cosa c’è, Manan? — Lei lo guardò con affetto opaco.
— Piccola, lasciami fare quello che hai detto… quello che hai detto che è stato fatto. Lui deve morire, piccola. Ti ha stregata. Lei si vendicherà. È vecchia e crudele, e tu sei troppo giovane. Non sei abbastanza forte.
— Lei non può farmi male.
— Se ti uccidesse, anche davanti agli occhi di tutti, all’aperto, nessuno in tutto l’impero oserebbe punirla. Lei è la somma sacerdotessa del re-dio, e il re-dio governa. Ma lei non ti ucciderà apertamente. Lo farà di nascosto, col veleno, nella notte.
— Allora rinascerò.
Manan si torse le grosse mani. — Forse non ti ucciderà — mormorò.
— Cosa intendi dire?
— Potrebbe rinchiuderti in una stanza nel… laggiù… Come tu hai fatto con lui. E tu rimarresti viva per anni e anni, forse. Per anni… E non nascerebbe una nuova sacerdotessa, perché tu non saresti morta. Eppure non ci sarebbe una sacerdotessa delle tombe, e non si danzerebbero le danze del novilunio, e i sacrifici non verrebbero compiuti, e il sangue non verrebbe versato, e il culto dei Tenebrosi potrebbe essere dimenticato per sempre. Lei e il suo signore amerebbero che fosse così.
— Loro mi libererebbero, Manan.
— No, se saranno irati con te, padroncina — replicò a bassa voce Manan.
— Irati?
— A causa di lui… Il sacrilegio non espiato. Oh, piccola, piccola! Loro non perdonano!
Lei stava seduta nella polvere del gradino più basso, con la testa china. Guardava la cosa minuscola che teneva nel palmo, il cranio di un topolino. I gufi appollaiati sulle travi, al di sopra del trono, cominciarono ad agitarsi un poco: si stava facendo scuro, e la notte si avvicinava.
— Non scendere nel labirinto, questa notte — disse Manan, a voce molto bassa. — Va’ nella tua casa e dormi. Domani mattina va’ da Kossil e dille che revochi la maledizione lanciata su di lei. E sarà tutto. Non avrai più motivo di preoccuparti. Io le mostrerò la prova.
— La prova?
— Che l’incantatore è morto.
Lei restò muta. Lentamente chiuse le dita, e il fragile cranio si sfracellò e si sgretolò. Quando lei riaprì la mano, non c’erano altro che schegge d’osso e polvere.
— No — disse. Scosse la mano per farne cadere la polvere.
— Lui deve morire. Ha gettato un incantesimo su di te. Sei perduta, Arha!
— Non ha gettato nessun incantesimo, su di me. Sei vecchio e codardo, Manan: ti lasci spaventare da una vecchia. Come credi di poter arrivare fino a lui e di ucciderlo e di ottenere la tua «prova»? Conosci la strada per giungere fino al Grande Tesoro, la strada che hai percorso nella tenebra stanotte? Sai contare le svolte e raggiungere la scala, e poi l’abisso, e poi la porta? Puoi aprire quella porta? Oh, povero vecchio Manan, la tua mente si è annebbiata. Lei ti ha fatto paura. Adesso va’ alla Casa Piccola e dormi, e dimentica tutte queste cose. E smettila di assillarmi di continuo parlando di morte… Io verrò più tardi. Va’, va’, vecchio sciocco, vecchio pancione. — Si era alzata: sospinse dolcemente l’ampio petto di Manan, perché se ne andasse. — Buonanotte, buonanotte!
Manan si voltò, appesantito dalla riluttanza e dai cupi presentimenti ma pur sempre docile; e si avviò per la navata, sotto il colonnato e il tetto in rovina. Lei lo seguì con lo sguardo.
Quando Manan fu uscito da qualche tempo, lei si voltò e girò intorno al podio del trono, e sparì nell’oscurità retrostante.
L’ANELLO DI ERRETH-AKBE
Nel Grande Tesoro delle Tombe di Atuan, il tempo non passava. Non c’era luce, né vita, neppure il movimento di un ragno nella polvere o di un verme nella fredda terra. Pietra, e tenebra, e il tempo che non passava.
Il ladro venuto dalle Terre Interne giaceva sul coperchio di pietra di uno dei grandi scrigni, riverso come una figura scolpita su una tomba. La polvere sollevata dai suoi movimenti era ricaduta sui suoi panni. Non si muoveva.
La serratura sferragliò. La porta si aprì. La luce infranse la profonda tenebra e un soffio di corrente più pura agitò l’aria morta. L’uomo rimase a giacere, inerte.
Arha chiuse la porta e girò la chiave dall’interno; poi posò la lanterna su un cofano e si avvicinò lentamente alla figura immota. Si muoveva con timore e aveva gli occhi spalancati, con le pupille ancora dilatate per il lungo percorso attraverso la notte.
— Sparviero!
Gli toccò la spalla e pronunciò ancora il suo nome, e un’altra volta ancora.
Finalmente lui si mosse, con un gemito. Si sollevò a sedere, col volto tirato e gli occhi spenti. La guardò senza riconoscerla.