— Sono io, Arha… Tenar. Ti ho portato l’acqua. Ecco, bevi.
Lui afferrò la borraccia brancolando, come se avesse le mani intorpidite, e bevve, ma non molto.
— Quanto tempo è passato? — domandò. Parlava con difficoltà.
— Sono trascorsi due giorni da quando sei venuto in questa camera. È la terza notte. Non ho potuto venire prima. Ho dovuto rubare il cibo. Eccolo… — Arha estrasse una delle piatte pagnotte grige dal sacco che aveva portato, ma lui scosse la testa.
— Non ho fame. Questo… questo è un luogo mortale. — Si strinse la testa fra le mani e restò immobile.
— Hai freddo? Ho portato il mantello dalla Camera Dipinta.
L’uomo non rispose.
Lei depose il mantello e restò a guardarlo. Tremava un poco, e i suoi occhi erano ancora neri e spalancati.
All’improvviso si lasciò cadere in ginocchio sul pavimento, piegandosi su se stessa, e incominciò a piangere, con singhiozzi profondi che le squassavano tutto il corpo ma non portavano lacrime.
Il giovane scese dal cofano, con movimenti rigidi, e si chinò su di lei. — Tenar…
— Io non sono Tenar. Io sono Arha. Gli dèi sono morti, gli dèi sono morti.
Lui le posò le mani sulla testa, spingendo all’indietro il cappuccio. Cominciò a parlare. La sua voce era sommessa, e le parole appartenevano a una lingua che lei non aveva mai udito. Quel suono le scendeva nel cuore come una pioggia. Si calmò, per ascoltare.
Quando lei tacque, il giovane la sollevò come una bambina e la depose sul grande cofano di pietra su cui era stato a giacere. Mise una mano sulla mano di lei.
— Perché piangevi, Tenar?
— Te lo dirò. Ciò che ti dirò non ha importanza. Tu non puoi far nulla. Non puoi aiutarmi. Anche tu stai morendo, non è vero? Quindi non ha importanza. Nulla ha più importanza. Kossil, la sacerdotessa del re-dio, è sempre stata crudele, ha sempre cercato di costringermi a ucciderti. Come ho ucciso gli altri. E io non volevo. Che diritto ne ha, lei? E ha sfidato i Senza Nome e si è fatta beffe di loro, e io le ho scagliato una maledizione. E da allora ho paura di lei, perché è vero ciò che ha detto Manan: lei non crede negli dèi. Lei vuole che vengano dimenticati; e vorrebbe uccidermi nel sonno. Perciò non ho dormito. Non sono ritornata nella Casa Piccola. Sono rimasta nel palazzo tutta l’altra notte, in una delle soffitte, dove sono custoditi gli abiti della danza. Prima che facesse chiaro, sono andata alla Casa Grande e ho rubato un po’ di cibo in cucina, e poi sono ritornata nel palazzo e ci sono rimasta tutto il giorno. Cercavo di scoprire cosa dovevo fare. E questa notte… questa notte ero così stanca che ho pensato di andare in un luogo sacro per dormire, perché forse lei avrebbe avuto paura di venirci. Allora sono scesa nella cripta. La grande caverna dove ti ho visto per la prima volta. E… e lei era là. Doveva essere entrata dalla porta delle rocce rosse. Era là, con una lanterna. Raspava nella fossa che aveva scavato Manan, per vedere se dentro c’era un cadavere. Come un ratto in un cimitero, un grande ratto grasso, e scavava. E la luce ardeva nel Luogo Sacro, il luogo tenebroso. E i Senza Nome non hanno fatto nulla. Non l’hanno uccisa e non le hanno tolto la ragione. Sono vecchi, come ha detto lei. Sono morti. Sono spariti tutti. Non sono più sacerdotessa.
L’uomo ascoltava, con la mano ancora posata sulla mano di lei e la testa un po’ reclinata. Un certo vigore era ritornato nel suo volto e nel suo portamento, sebbene le cicatrici sulla guancia spiccassero di un grigiore livido e ci fosse ancora polvere sui suoi indumenti e sui suoi capelli.
— L’ho aggirata, passando attraverso la cripta. La sua candela gettava più ombre che luce, e non mi ha sentita. Volevo andare nel labirinto per allontanarmi da lei. Ma quando vi sono entrata, ho continuato ad avere la sensazione di udire i suoi passi che mi seguivano. Per tutti i corridoi ho continuato a sentire qualcuno dietro di me. E non sapevo dove andare. Pensavo che sarei stata al sicuro, qui, pensavo che i miei Padroni mi avrebbero protetta e difesa. Ma non lo fanno, non ci sono più, sono morti…
— Era per loro che piangevi… per la loro morte? Ma loro sono qui, Tenar, qui!
— E come puoi saperlo? — chiese lei, apatica.
— Perché in ogni istante, da quando ho messo piede nella caverna sotto le Pietre Tombali, ho lottato per tenerli immobili, per mantenerli ignari. Tutte le mie facoltà sono impegnate, e in questo ho consumato la mia forza. Ho riempito queste gallerie con una rete interminabile di incantesimi, incantesimi di sonno, di silenzio, di occultamento: eppure sono ancora consapevoli di me, semiconsapevoli. E anche così sono quasi completamente sfinito dalla lotta contro di loro. Questo è un luogo terribile. Un uomo solo, qui, non ha speranza. Io stavo morendo di sete, quando tu mi hai dato l’acqua, eppure non è stata soltanto l’acqua a salvarmi. È stata la forza delle mani che me la porgevano. — E mentre diceva questo, il giovane girò la mano di lei a palmo in su e la guardò; poi si scostò, percorse qualche passo nella camera, e tornò nuovamente a fermarsi davanti a lei. Lei non disse nulla.
— Pensi davvero che siano morti? In cuor tuo sai benissimo che non è così. Loro non muoiono. Sono tenebrosi e immortali, e odiano la luce: la breve, fulgida luce della nostra mortalità. Sono immortali, ma non sono dèi. Non lo sono mai stati. Non meritano la devozione di nessuna anima umana.
Lei ascoltava, con gli occhi pesanti e lo sguardo fisso sulla lanterna agonizzante.
— Cosa ti hanno mai dato, Tenar?
— Nulla — mormorò lei.
— Non hanno nulla da dare. Non hanno il potere di creare. Il loro potere consiste nell’ottenebrare e nel distruggere. Non possono lasciare questo luogo: loro sono questo luogo; e si dovrebbe lasciarlo a loro. Non si dovrebbe rinnegarli né dimenticarli, ma non si dovrebbe neppure adorarli. La terra è bellissima, e luminosa, e mite, ma non è tutto. La terra è anche terribile, e tenebrosa, e crudele. Il coniglio grida, morendo nei prati verdi. Le montagne contraggono le grandi mani piene di fuoco nascosto. Ci sono squali nel mare, e c’è crudeltà negli occhi degli uomini. E dove gli uomini venerano queste cose e si prosternano davanti a loro, là scaturisce il male: si creano nel mondo luoghi dove si addensa la tenebra, luoghi consegnati completamente a coloro che noi chiamiamo Senza Nome, le antiche e sacre Potenze della Terra prima che venisse la Luce, le potenze della tenebra, della rovina, della follia… Io credo che abbiano fatto impazzire la tua sacerdotessa Kossil già da molto tempo: credo che lei si aggiri in queste caverne come si aggira nei labirinti del suo io, e che ormai non possa più vedere la luce del giorno. Ti ha detto che i Senza Nome sono morti: soltanto un’anima perduta, perduta alla verità, può crederlo. Loro esistono. Ma non sono i tuoi padroni. Non lo sono mai stati. Tu sei libera, Tenar. Ti avevano insegnato a essere una schiava, ma ti sei liberata.
Lei ascoltava, sebbene la sua espressione non mutasse. L’uomo non disse altro. Rimasero in silenzio; ma non era il silenzio che c’era stato in quella camera prima che lei vi entrasse. Adesso c’era il loro respiro, e il movimento della vita nelle loro vene, e la candela che ardeva nella sua lanterna di stagno, un piccolo suono vitale.
— Come sai il mio nome?
L’uomo camminava avanti e indietro nella camera, sollevando la finissima polvere, stiracchiandosi le braccia e le spalle per liberarsi dal freddo che l’intorpidiva.
— Conoscere i nomi è il mio mestiere. La mia arte. Per intessere la magia di una cosa, vedi, è necessario scoprire il suo vero nome. Nelle mie terre teniamo segreto il nostro nome per tutta la vita, lo nascondiamo a tutti tranne a coloro di cui ci fidiamo completamente: perché in un nome ci sono un grande potere e un grande pericolo. Una volta, all’inizio del tempo, quando Segoy fece emergere le isole di Earthsea dalle profondità dell’oceano, tutte le cose portavano il loro vero nome. E tutte le opere della magia sono ancora imperniate sulla conoscenza (la riscoperta, il ricordo) di quell’antica e vera lingua della creazione. Ci sono da apprendere gli incantesimi, naturalmente, i modi di usare le parole; ed è necessario anche conoscere le conseguenze. Ma un mago dedica la vita a scoprire i nomi delle cose, e a scoprire i modi di scoprire quei nomi.