— Come hai scoperto il mio?
Lui la guardò per un momento, uno sguardo profondo e limpido attraverso le ombre. Esitò un istante. — Questo non posso dirtelo. Tu sei come una lanterna coperta e avviluppata, e nascosta in un luogo buio. Eppure la luce risplende: la luce non hanno potuto spegnerla. Non potevano nasconderti. Come conosco la luce, come conosco te, così conosco il tuo nome, Tenar. Questo è il mio dono, il mio potere. Non posso dirti altro. Ma tu dimmi: cosa farai, adesso?
— Non lo so.
— Ormai Kossil avrà trovato una fossa vuota. Cosa farà?
— Non lo so. Se ritorno lassù, lei mi farà uccidere. Per una somma sacerdotessa, mentire è la morte. Potrebbe farmi sacrificare sui gradini del trono, se volesse. E Manan dovrebbe mozzarmi davvero la testa, questa volta, invece di limitarsi ad alzare la spada e ad attendere che la Figura Tenebrosa lo arresti. Questa volta la spada non si fermerebbe: scenderebbe e mi taglierebbe la testa.
La voce di Arha era opaca e lenta. L’uomo aggrottò la fronte. — Se rimarremo qui a lungo — disse, — tu impazzirai. La collera dei Senza Nome pesa sulla tua mente. E sulla mia. Ora che tu sei qui è meglio, molto meglio. Ma è trascorso tanto tempo prima che tu tornassi, e io ho consumato gran parte della mia forza. Nessuno può resistere a lungo ai Tenebrosi, da solo. Sono fortissimi. — S’interruppe: aveva abbassato la voce, e sembrava che avesse perso il filo del discorso. Si passò le mani sulla fronte, e poco dopo andò a bere un altro sorso dalla borraccia. Spezzò un po’ di pane e si sedette, per mangiarlo, sul cofano di fronte.
Ciò che aveva detto era vero: lei sentiva un peso, un’oppressione nella mente che sembrava oscurare e confondere ogni pensiero e ogni sentimento. Eppure non era terrorizzata, come lo era stata quando aveva percorso da sola i corridoi. Soltanto il silenzio assoluto fuori dalla camera le sembrava terribile. Perché era così? Lei non aveva mai temuto il silenzio sotterraneo, prima. Ma prima non aveva mai disubbidito ai Senza Nome, non li aveva mai contrastati.
Alla fine proruppe in una piccola risata lamentosa. — Ce ne stiamo qui, seduti sul più grande tesoro dell’impero — disse. — Il re-dio darebbe tutte le sue mogli per averne uno scrigno. E noi non abbiamo neppure sollevato un coperchio per guardare.
— Io l’ho fatto — disse lo Sparviero, masticando.
— Al buio?
— Ho acceso una piccola luce. La luce incantata. È stato difficile, qui. Sarebbe stato difficile anche se avessi avuto il mio bastone; e senza quello è stato come cercare di accendere un fuoco con legna bagnata, sotto la pioggia. Ma alla fine ci sono riuscito. E ho trovato ciò che cercavo.
Lei alzò il volto, lentamente, per guardarlo. — L’anello?
— Il mezzo anello. Tu hai l’altra metà.
— Io? L’altra metà andò perduta…
— Ed è stata ritrovata. Io la portavo al collo, appesa a una catena. Tu me l’hai presa, e mi hai chiesto se non potevo permettermi un talismano migliore. L’unico talismano migliore della metà dell’Anello di Erreth-Akbe è l’Anello intero. Ma del resto, come dicono, mezza pagnotta è meglio che niente. Perciò ora tu hai la mia metà, e io ho la tua. — Lui le sorrise, attraverso le ombre della tomba.
— Quando l’ho preso, tu mi hai detto che non avrei saputo cosa farne.
— Era vero.
— E tu lo sai?
Lui annuì.
— Dimmi. Dimmi cos’è l’anello, e come hai trovato la metà perduta, e come sei venuto qui, e perché. Devo sapere tutto questo: forse allora capirò cosa devo fare.
— Forse. Sta bene. Cos’è l’Anello di Erreth-Akbe? Ecco, puoi vedere che non sembra un oggetto prezioso e non è neppure un anello. È troppo grande. Forse è un bracciale, eppure sembra troppo piccolo per esserlo. Nessuno sa perché venne fabbricato. Una volta lo portò Elfarran la Bionda, prima che l’isola di Soléa sprofondasse nel mare; ed era già antico quando lei lo portava. Alla fine pervenne nelle mani di Erreth-Akbe. Il metallo è argento duro, trapassato da nove fori. All’esterno c’è un disegno graffito, come un motivo di onde, e all’interno ci sono nove simboli del Potere. La metà che hai tu ne porta quattro e un frammento di un quinto; e anche la mia metà. La frattura spezzò quel simbolo e lo distrusse. Da allora viene chiamato il Simbolo Perduto. Gli altri otto sono noti ai maghi: Pirr che protegge dalla follia e dal vento e dal fuoco, Ges che dona costanza, e così via. Ma il simbolo spezzato era quello che legava le terre. Era la Runa del Vincolo, il segno del dominio, il segno della pace. Nessun re poteva regnare bene se non governava sotto quel segno. Nessuno sa come sia scritto. Da quando è andato perduto, ad Havnor non ci sono più stati grandi re. Ci sono stati principi e tiranni, e guerre e conflitti tra tutte le isole di Earthsea.
«Perciò i saggi nobili e i maghi dell’arcipelago volevano l’Anello di Erreth-Akbe, per ricostruire il simbolo perduto. Ma alla fine rinunciarono a inviare i loro uomini a cercarlo, poiché nessuno poteva prendere una metà dalle Tombe di Atuan; e l’altra metà, che Erreth-Akbe aveva donato a un re di Kargad, era andata perduta da molto tempo. Dicevano che era inutile cercarla. Questo avveniva molti secoli fa.
«A questo punto, entro in scena io. Quando ero un poco più vecchio di quanto sia tu ora, ero impegnato in un… inseguimento, una specie di caccia attraverso il mare. Ciò che inseguivo mi sfuggì con l’inganno, e venni gettato su un’isola deserta, non lontano dalle coste di Karego-At e di Atuan, a sudovest di qui. Era un’isoletta, non molto più grande di una barena di sabbia, con lunghe dune erbose al centro e una fonte d’acqua salmastra, e null’altro.
«Eppure vi vivevano due persone. Un vecchio e una vecchia: fratello e sorella, credo. Avevano terrore di me. Non vedevano una faccia umana da… da quanto tempo? Anni, decine di anni. Ma io avevo bisogno di aiuto e furono buoni con me. Avevano una capanna costruita col legno gettato a riva dal mare, e un fuoco. La vecchia mi diede da mangiare i mitili che strappava dalle pietre alla bassa marea e la carne secca degli uccelli marini che loro uccidevano scagliando sassi. La vecchia aveva paura di me, ma mi diede da mangiare. Poi, quando vide che non facevo nulla di spaventoso, finì col fidarsi di me e mi mostrò il suo tesoro. Anche lei aveva un tesoro… Era un vestitino. Tutto di seta, ricamato di perle. Un vestito da bimba, l’abito di una principessina. E lei era vestita di pelli di foca non conciate.
«Non potevamo parlarci. Allora io non conoscevo la lingua di Kargad, e loro non conoscevano nessuna delle lingue dell’arcipelago e sapevano ben poco anche la loro. Dovevano essere stati portati lì da bambini, e abbandonati a morire. Non so perché, e credo che neppure loro lo sapessero. Non conoscevano altro che l’isola e il vento e il mare. Ma quando me ne andai, la vecchia mi fece un dono. Mi diede la metà perduta dell’Anello di Erreth-Akbe». Tacque per qualche istante.
— Allora non sapevo cosa fosse, come non lo sapeva lei. Il più grande dono di quest’epoca del mondo, ed era stato dato da una povera vecchia sciocca vestita di pelli di foca a uno stupido che se lo cacciò in tasca, disse «Grazie!» e se ne andò… Ebbene, proseguii il mio viaggio e feci ciò che dovevo fare. E poi avvennero altre cose, e io andai alle isole dei Draghi, a occidente, e così via. Ma continuai a tenere l’oggetto, perché provavo gratitudine per la vecchia che mi aveva dato l’unico dono che aveva da dare. Infilai una catenina attraverso uno dei fori, e la portai senza pensarci più. E poi un giorno, a Selidor, l’Isola Estrema, la terra dove Erreth-Akbe morì combattendo con il drago Orm… a Selidor parlai con un drago, un discendente di Orm. E lui mi disse cosa portavo sul petto.