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Era sera. Il sole era calato dietro le montagne che incombevano vicine e altissime a occidente, ma il chiarore che aveva lasciato riempiva tutta la terra e il cielo: un cielo invernale, immenso, limpido, una terra immensa, nuda e dorata, di montagne e di ampie valli. Il vento era caduto. Era freddo, e c’era un silenzio totale. Non si muoveva nulla. Le foglie dei vicini cespugli di salvia erano aride e grige, gli steli delle minuscole erbe secche del deserto le pungevano la mano. L’immensa gloria silente della luce ardeva su ogni ramoscello, su ogni foglia avvizzita e su ogni stelo, sulle colline, nell’aria.

Tenar guardò verso sinistra e vide l’uomo giacente sul suolo del deserto, avvolto nel mantello, con un braccio sotto la testa, addormentato profondamente. Nel sonno il suo volto era severo, quasi aggrondato, ma la mano sinistra stava abbandonata sulla terra, accanto a una piccola pianta di cardo che portava ancora la sua lacera cappa di lanugine grigia e la sua minuscola barriera di spine. L’uomo e il piccolo cardo del deserto; il cardo e l’uomo addormentato.

I suoi poteri erano grandi, e affini alle Vecchie Potenze della Terra; era uno che parlava con i draghi, e teneva a bada i terremoti con una parola. E adesso giaceva addormentato sulla terra, accanto a un piccolo cardo. Era stranissimo. Vivere, essere al mondo, era una cosa molto più grande e più strana di quanto lei avesse mai immaginato. Lo splendore del cielo sfiorò gli impolverati capelli di Ged, e per qualche istante trasformò il cardo in oro.

La luce sbiadiva lentamente. E il freddo parve diventare più intenso, di minuto in minuto. Tenar si alzò e cominciò a raccogliere la salvia secca, raccattando i fuscelli caduti, spezzando i duri rami che crescevano nodosi e massicci — fatte le proporzioni — come quelli delle querce. Si erano fermati lì verso il meriggio, quando era caldo, e non avevano potuto proseguire a causa della stanchezza. Un paio di ginepri stenti, e il pendio occidentale della cresta da cui erano appena discesi, offrivano un discreto riparo: avevano bevuto un po’ d’acqua dalla borraccia e si erano sdraiati a dormire.

C’erano parecchi rami più grossi, sparsi sotto gli alberi, e Tenar li raccolse. Scavò una buca in un angolo, tra i sassi affondati nella terra, e preparò il fuoco accendendolo poi con la selce e l’acciarino. Le foglie di salvia e i fuscelli s’infiammarono subito. I rami secchi fiorirono in vampe rosate, profumate di resina. Ormai si era fatto buio, intorno al fuoco, e le stelle si riaffacciavano nell’immane cielo.

Il crepitio delle fiamme destò il dormiente. Si sollevò a sedere, stropicciandosi il volto impolverato; poi si alzò, rigido, e si avvicinò al fuoco.

—  Mi chiedo… — disse con voce assonnata.

—  Lo so, ma non potremmo resistere di notte, qui, senza fuoco. Fa troppo freddo. — Dopo un attimo, Tenar aggiunse: — A meno che tu conosca qualche magia che ci dia calore o che nasconda le fiamme…

Lui si sedette accanto al fuoco, quasi toccandolo con i piedi, cingendosi le ginocchia con le braccia. — Brrr - fece. — Un fuoco è meglio della magia. Ho gettato una piccola illusione intorno a noi: se passasse qualcuno, gli sembreremmo fuscelli e pietre. Tu cosa dici? Che c’inseguiranno?

—  Lo temo, eppure non credo che lo faranno. Nessuno, tranne Kossil, sapeva che tu eri là. Kossil e Manan. E sono morti entrambi. Sicuramente lei era nel palazzo, quando è crollato. Ci stava aspettando alla botola. E tutti gli altri penseranno che io fossi nel palazzo o nelle tombe, e che sia rimasta schiacciata durante il terremoto. — Anche lei si cinse le ginocchia con le braccia, e rabbrividì. — Spero che gli altri edifici non siano crollati. Era difficile vedere qualcosa dalla collina: c’era troppa polvere. Senza dubbio i templi e le case non sono caduti tutti quanti, per esempio la Casa Grande dove dormono le ragazze.

—  Non credo. Le tombe hanno divorato se stesse. Ho scorto il tetto d’oro di un tempio, quando ci siamo allontanati: non era caduto. E c’erano figure, più in basso, sulle pendici della collina: gente che correva.

—  Cosa diranno, cosa penseranno… Povera Penthe! Adesso potrebbe diventare somma sacerdotessa del re-dio. Eppure aveva sempre desiderato fuggire. Lei. Non io. Forse adesso fuggirà. — Tenar sorrise. C’era in lei una gioia che nessun pensiero e nessuna paura poteva offuscare, la stessa gioia sicura che era sorta in lei quando si era risvegliata nella luce aurea. Aprì il sacco ed estrasse due pagnotte appiattite; ne porse una a Ged, attraverso il fuoco, e addentò l’altra. Il pane era duro, e acido, e squisito.

Per qualche minuto mangiarono, in silenzio.

—  Siamo molto lontani dal mare?

—  Ho impiegato due giorni e due notti, per arrivare al Luogo. Impiegheremo un poco di più, per raggiungerlo.

—  Io sono forte — disse Tenar.

—  Lo sei. E coraggiosa. Ma il tuo compagno è stanco — replicò Ged con un sorriso. — E non abbiamo molto pane.

—  Troveremo l’acqua?

—  Domani, tra le montagne.

—  Potresti procurarci qualcosa da mangiare? — chiese lei, vagamente, con timidezza.

—  Per andare a caccia occorrono le armi e il tempo.

—  Voglio dire… lo sai, con gli incantesimi.

—  Posso chiamare un coniglio — disse lui, attizzando il fuoco con un nodoso ramoscello di ginepro. — I conigli stanno uscendo dalle tane tutt’intorno a noi, adesso. La sera è il loro momento. Potrei chiamarne uno per nome, e verrebbe. Ma tu cattureresti e scuoieresti e arrostiresti un coniglio che è venuto a farti visita? Forse se stessi per morire di fame. Ma sarebbe un abuso di fiducia, credo.

—  Sì. Pensavo: forse potresti…

—  Evocare una cena — disse lui. — Oh, potrei farlo. Su piatti d’oro, se tu volessi. Ma sarebbe un’illusione, e quando mangi illusioni finisci con l’avere più fame di prima. È nutriente, più o meno, quanto mangiare parole. — Tenar vide i candidi denti di Ged lampeggiare per un momento nella luce del fuoco.

—  La tua magia è strana — osservò, con la lieve dignità che si conveniva tra pari, una sacerdotessa che si rivolgeva a un mago. — Sembra utile solo nelle grandi cose.

Lui aggiunse altra legna al fuoco, che divampò in un crepitio di scintille odorose di ginepro.

—  Davvero puoi chiamare un coniglio? — chiese all’improvviso Tenar.

—  Vuoi che lo faccia?

Lei annuì.

Ged si distolse dal fuoco e disse sommessamente nella vasta oscurità rischiarata dalle stelle: — Kebbo… Oh kebbo…

Silenzio. Non un suono. Non un movimento. Solo, al limitare della guizzante luce del fuoco, un occhio rotondo, come un ciottolo di giaietto, vicinissimo al suolo. La curva di un dorso peloso; un orecchio, lungo, eretto nell’allarme.

Ged parlò di nuovo. L’orecchio si scosse, e dall’ombra ne apparve un altro; poi, mentre la bestiola si voltava, Tenar la vide interamente per un attimo, vide il piccolo balzo agile e morbido mentre tornava tranquilla nella notte.

—  Ah! — disse, esalando il respiro che aveva trattenuto. — È meraviglioso. — Poi chiese: — Potrei farlo anch’io?

—  Ecco…

—  È un segreto — disse Tenar, ritrovando la sua dignità.

—  Il nome del coniglio è un segreto. O almeno, non si dovrebbe usarlo con leggerezza, senza una ragione. Ma il potere di chiamare non è un segreto, vedi, ma piuttosto un dono, o un mistero.

—  Oh — disse lei. — E tu lo possiedi. Lo so! — C’era passione nella sua voce, non celata dalla finta ironia. Lui la guardò e non rispose.

Era ancora esausto dalla lotta contro i Senza Nome: aveva esaurito le forze nelle gallerie squassate dal terremoto. Sebbene avesse vinto, non gli restava l’energia per esultare. Ben presto si raggomitolò di nuovo, vicinissimo al fuoco, e si riaddormentò.